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La Chiesa, Corpo di Cristo

San Paolo utilizza diverse immagini per spiegare il mistero della Chiesa. Nelle sue lettere la paragona spesso a un corpo, il cui capo è Cristo e le cui membra siamo noi, i credenti. Cosa significa questa immagine simbolica?

Unità nella diversità

Il corpo dell’uomo si compone di molte membra che hanno diversi compiti. «Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo» (1 Cor 12,14-16). Questa diversità delle membra è di vitale importanza per il corpo. «Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo» (1 Cor 12,17-20). Ma tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un insieme e formano «un corpo solo» (1 Cor 12,12).

L’Apostolo riferisce questi elementi alla Chiesa. La diversità dei membri si mostra nel fatto che in essa ci sono uomini di molti popoli, lingue, stati e ceti: «Giudei o Greci, schiavi o liberi» (1 Cor 12, 13). La Chiesa è aperta a tutti gli uomini, di ogni razza e nazione. Le peculiarità di ognuno non vengono annullate, ma purificate e santi­ficate. Nella Chiesa esistono anche vari ministeri e carismi, che Dio, nella sua bontà, elargisce. Egli ha posto alcuni «come apostoli, in secondo luogo come pro­feti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare» (1 Cor 12,28). La maggior parte dei membri della Chiesa vivono da fedeli laici nel mondo; alcuni servono l’edificazione del corpo in un ministero gerarchico (Papa, vescovi, sacerdoti, diaconi); altri sono chiamati a seguire Gesù nella vita consacrata. In ogni stato il Signore dona talenti e carismi, di cui alcuni sono conosciuti, altri restano più nascosti, ma non per questo sono meno importanti.

Questa diversità è necessaria per il Corpo di Cristo. Se la Chiesa escludesse certi popoli, ceti sociali o professioni, non sarebbe veramente “cattolica”. Se non ci fossero fedeli laici, la Chiesa non potrebbe santificare il mondo con il lievito del Vangelo. Senza ministri sacri essa non potrebbe dispensare i sacramenti, così essen­ziali alla vita della grazia. Senza persone consacrate mancherebbe la testimonianza della sequela radicale di Cristo nei consigli evangelici (verginità, povertà, obbe­dienza). Senza i carismi che lo Spirito di Dio dona ai fedeli, la Chiesa sarebbe più povera e non potrebbe svolgere tanti compiti e servizi.

Riflettendo su questa meravigliosa realtà, vediamo che la Chiesa è una comunità con una grande diversità. Tale diversità costituisce soprattutto una ricchezza, ma è anche una continua sfida. Dobbiamo infatti badare a conservare l’unità, pur rispettando le necessarie diver­sità.

Unità in Cristo

Le membra del corpo dell’uomo formano una unità, perché hanno tutte lo stesso capo che le unisce. Similmente avviene per la Chiesa: Cristo «è il capo del corpo, cioè della Chiesa» (Col 1,18).

Cristo è il nostro Redentore. San Paolo scrive: «Poiché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappaci­ficando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20). Sulla croce, infatti, il Signore ci ha ricon­ciliati con il Padre e tra di noi.

I sacramenti ci uniscono con Cristo crocifisso e risorto nel suo Corpo, la Chiesa. Il Concilio Vaticano II insegna: «In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che attraverso i sacramenti si uniscono in un modo arcano e reale a Cristo sofferente e glorioso» (Lumen gentium, n. 7). Ciò vale soprattutto per il battesimo, mediante il quale «siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1 Cor 12,13), e per l’Eucaristia, attraverso la quale la nostra comunione con Cristo nella sua Chiesa si fa sempre più profonda:        «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10, 16-17).

In questo senso nella Terza Preghiera Eucaristica il sacerdote chiede al Padre: «A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito».

Come membri del corpo della Chiesa, spesso differenziati fortemente gli uni dagli altri, possiamo così rimanere una cosa sola, perché, mediante lo Spirito Santo, siamo uniti in Cristo e con Cristo. Capo della Chiesa, egli è la fonte della nostra unità. A Lui dobbiamo volgerci con umiltà, fiducia e perseveranza per chiedere di accordarci sempre il dono dell’unità.

Unità nel completamento reciproco

Le membra del corpo sono unite con Cristo ma anche tra di loro. «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,4-5).

Le diverse membra del corpo hanno bisogno le une delle altre. Perciò scrive san Paolo: «Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. Anzi quelle membra del corpo che sem­brano più deboli sono più necessarie» (1 Cor 12,21-22). Le membra apparentemente insignificanti davanti a Dio hanno un grande valore: «Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre» (1 Cor 12, 24‑25). Le membra del corpo hanno in comune gioie e sofferenze: «Quindi, se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12,26).

 

Nel corpo della Chiesa i membri dipendono gli uni dagli altri. Nessuno può dire all’altro: «Non ho bisogno di te». Dio vuole che ci prendiamo cura gli uni degli altri, che ci sosteniamo e fortifichiamo a vicenda, che condividiamo le sofferenze e le gioie. Questo intendiamo dire quando parliamo di completamento reciproco.

Papa Clemente I scrive nella sua Lettera ai Corinzi: «In ogni cosa c’è equilibrio e in questo un vicendevole vantaggio». Tale principio diviene chiaro se pensiamo a un’orchestra. I singoli musicisti che formano l’orchestra, non possono essere semplici solisti. Devono essere in grado di suonare insieme, ognuno con il proprio strumento e secondo le proprie doti. L’accordo e l’equilibrio dei diversi strumenti, che richiede molto esercizio, offre la misura della capacità dei musicisti e della qualità dell’orchestra. Ciò vale anche per la Chiesa. Papa Benedetto XVI allude a questo nella sua Enciclica Spe salvi, nella quale scrive: «Il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell’unità del genere umano, come frazionamento e divisione… E così la “redenzione” appare proprio come il ristabilimento dell’unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un’unione che si delinea nella comunità mondiale dei credenti» (n. 14).

Parlando di questa unità e del completamento reciproco tra i membri della Chiesa, Madre Giulia scriveva: «La luce della complementarità è un grande dono e un continuo appello nel carisma de “L’Opera”». In che cosa consiste il dono della complementarità? Quali attitudini sono richieste? Quali pericoli e tentazioni si presentano?

 Vivere il completamento reciproco

Prendersi cura gli uni degli altri

Ogni uomo, e ancor più ogni cristiano, ha delle respon­sabilità. Oggi in molti luoghi è diffusa la convinzione che tutti debbano seguire la propria strada, almeno in campo religioso e morale. Questioni di fede e di costumi sarebbero “cose private”, che non riguardano gli altri. Ognuno dovrebbe fare ciò che personalmente considera giusto in coscienza: uno crede in Gesù, l’altro in Buddha; uno è contro l’aborto, l’altro pensa che in certe situazioni sia giusta l’interruzione di gravidanza. E ognuna di queste convinzioni dovrebbe essere tollerata come ugualmente valida.

Questo atteggiamento è sbagliato, in quanto non riconosce che questioni di fede e di morale non sono materie soggettive, in cui ognuno può avere le proprie opinioni. Infatti a queste domande ci sono risposte vere che possono dare orientamento alla nostra vita, e ci sono anche risposte sbagliate che portano fuori strada. Dio stesso ci ha donato nella Rivelazione quelle risposte che ci mostrano il giusto cammino e ci conducono alla felicità eterna. E molte di queste risposte sono ac­cessibili non solo alla fede ma anche alla ragione.

L’idea che la fede sia una “questione privata” è falsa anche perché porta all’individualismo e all’indifferenza: se ognuno potesse ottenere la felicità a modo suo, non avremmo bisogno di occuparci del prossimo. In realtà, siamo responsabili non solo di noi stessi, ma anche degli altri. Perciò, come membri della Chiesa, abbiamo il dovere di aver cura gli uni degli altri (cf. 1 Cor 12,25). I genitori devono avere un ardente desiderio di trasmettere la ricchezza della fede ai loro figli. Sacerdoti e religiosi devono sentire profondamente l’urgenza di formare Cristo nel cuore degli uomini. E tutti noi, come membri del Corpo di Cristo, siamo invitati a pregare gli uni per gli altri e per tutta la Chiesa, e a dar testi­monianza della Buona Novella.

A ognuno il suo dono particolare

Nella Chiesa esiste una meravigliosa molteplicità di doni. San Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi ne menziona alcuni: il dono della “sapienza”, cioè la capacità di vedere gli eventi della vita a partire dalla croce di Cristo; il dono della “scienza”, che è il dono di saper e amare Gesù Cristo nel profondo del cuore; il dono della “fede”, che aiuta a restare fermi nell’amicizia con Cristo anche in situazioni difficili; il dono di far guarigioni, di inter­pretare profeticamente i segni dei tempi, di distinguere gli spiriti, ecc. «Ma tutte queste cose – continua l’Apo­stolo – è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12,8-11).

Anche a ognuno di noi lo Spirito Santo elargisce i suoi doni particolari: uno può immedesimarsi partico­larmente bene negli altri; l’altro si distingue per la capacità di saper trascinare i giovani e intrattenere i bambini; un altro sa confortare i malati e i sofferenti; un altro ancora ha grandi doti organizzative, ecc. Per tutta questa ricchezza di doni dobbiamo essere sempre grati al Signore.

Dobbiamo accogliere volentieri questi doni, perché vengono dallo Spirito di Dio, che li distribuisce come vuole. Perciò è importante non essere gelosi dei doni degli altri, ma di apprezzarli e di rispettarli. In questo senso Madre Giulia ci esortava: «La nostra vita deve essere colma di rispetto per la misericordia e la maestà di Dio, di rispetto per i doni dello Spirito Santo, di rispetto per il piano di Dio su ogni uomo e al tempo stesso per la risposta di ciascuno, che si esprime in libertà».

 

Per l’utilità comune

I doni che Dio distribuisce ai membri del Corpo di Cristo, non ci vengono dati per il nostro vantaggio personale. Ogni dono spirituale viene elargito «per l’utilità comune» (1 Cor 12,7). Chi vuole usare i propri talenti per rendersi importante, non ha capito l’essenziale ed è ingiusto verso Dio, perché, invece di onorare Dio con questi doni, glorifica se stesso.

Per impiegare giustamente i talenti ricevuti, dobbiamo essere umili e disponibili. L’umiltà ci rende consapevoli di chi siamo davanti a Dio: le sue creature a cui Egli ha elargito la ricchezza della sua vita e dei suoi doni. La disponibilità a servire ci aiuta ad accoglierli con gratitudine, a renderli fecondi nella fede, nell’amore e nella donazione, e a impiegarli per il bene degli altri. In questo senso la via del completamento reciproco richiede l’esercizio della virtù, che esige impegno, ma dà molto frutto: ci preserva dalla parzialità, dall’esagerazione e dall’errore.

Ci consente di guadagnare molto tempo e di trovare, insieme, prima le soluzioni. È un cammino su cui possiamo maturare, i nostri doni si sviluppano, la nostra fede cresce e lo Spirito Santo può elargire la sua luce. Ci aiuta a diventare sempre più “benedizione” gli uni per gli altri e, attraverso la preghiera e la Messa di suffragio, anche per i defunti.

San Paolo ci incoraggia a seguire questa via nella sequela di Cristo: «Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri» (Fil 2,1-4).

Non paragonare, ma discernere

Madre Giulia diceva: «Chi vive della luce di Dio, non paragona ma discerne». Con queste parole voleva metterci in guardia da un atteggiamento sbagliato e molto diffuso, in cui si può facilmente cadere: il paragone egoistico con gli altri. Chi paragona in tal modo i suoi propri doni con quelli degli altri, se si convince di essere più dotato degli altri, finisce per diventare orgoglioso, oppure, se comincia a pensare che gli altri siano più dotati di lui, cade nell’invidia, nello scoraggiamento, e diviene geloso.

La luce della fede invece ci insegna che tutti i doni vengono da Dio e che dobbiamo distinguere: lo Spirito Santo dona a uno un talento, all’altro un altro. Nessuno è privo di doni e nessuno li possiede tutti. Perciò è così importante completarci a vicenda e imparare a servire con i doni che abbiamo ricevuto.

Per questo motivo è importante che ci impegniamo a impiegare i nostri talenti con fede nella propria famiglia come anche nelle parrocchie e nelle comunità. Tutti, donne o uomini, operai o studiosi, persone consacrate o sacerdoti, abbiamo il dovere di non cadere nell’ atteggiamento egoistico del paragone che ci porta a invidiare i doni degli altri, come succede nel femminismo radicale, nel clericalismo, nell’intellettualismo e in tanti altri “ismi”. Siamo chiamati a servire con i propri doni, a edificare il Corpo di Cristo e ad annunciare così al mondo la Buona Novella.

Insieme soffrire – insieme gioire

Così grande è l’unione dei membri del Corpo di Cristo che san Paolo può scrivere: «Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme, e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12,26).

Se qualcuno perde la fede o non pratica più, se persone consacrate, sacerdoti oppure persone sposate si trovano in grandi difficoltà, se qualcuno smarrisce la retta via o è colpito da un grande dolore o da una grave malattia, tutto ciò non può lasciarci indifferenti. Dal momento che amiamo la Chiesa e i suoi membri, queste situazioni devono toccarci il cuore ed esortarci a fare il possibile per aiutare queste persone: con la preghiera paziente e fiduciosa, con la propria fedeltà, con un atto di fede, una lettera coraggiosa, un colloquio aperto, ecc.

Ma anche la condivisione della gioia deve distinguere i membri della Chiesa. È strano che la partecipazione alla gioia sembri essere persino più rara della compassione. Il motivo è certo la gelosia che impedisce a molti di gioire sinceramente con gli altri. La maggior gioia per Paolo consisteva nel fatto che altre persone aprivano il loro cuore a Cristo. Perciò scrive a Filippesi: «Ringrazio il mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente» (Fil 1,3-5).

La via migliore di tutte

I doni spirituali hanno un grande significato per il Corpo Mistico. Tuttavia non sono la cosa più importante. Dopo aver ricordato ai Corinzi di impiegare nel modo giusto i propri talenti, Paolo scrive: «E io vi mostrerò una via migliore di tutte» (1 Cor 12,31). Questa via è la carità, senza la quale ogni altro dono, sia pure il più eccelso di tutti, è vano e senza valore.

L’Apostolo descrive la carità con parole incomparabili: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).

La carità rende semplice il completamento reciproco. Scaccia l’orgoglio, la gelosia e l’invidia, i più grandi nemici della complementarità, e promuove le attitudini di umiltà, di rispetto e di servizio. Ci sprona a non usare i nostri doni e talenti per il proprio onore, ma per la glorificazione di Dio, l’edificazione della Chiesa e il bene del prossimo. Da san Paolo Madre Giulia ha imparato «che il merito della nostra vita e la sua forza d’irradiazione non dipendono dalla misura delle nostre attività, bensì dall’amore che ci pervade e che è infuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. Infatti, è proprio l’amore che ci rende possibile vedere Dio in tutto e in tutti». L’amore aiuta anche a vivere in pienezza il principio della complementarità reciproca, fa risplendere la bellezza e la forza della Chiesa ed è di giovamento a molte persone.

Portate i pesi gli uni degli altri

“Insieme siamo forti.” Se noi mettiamo volentieri i nostri propri doni e talenti al servizio gli uni degli altri, diventiamo una benedizione vicendevole. Il completa­mento reciproco ci fortifica in ogni situazione della vita, anche quando facciamo esperienza dei nostri limiti e debolezze. È un principio che dona nuova vita alla Chiesa. È la chiave che dà adito alla felicità, perché noi siamo creati per vivere in comunità. San Paolo ci invita a seguire Cristo sulla via del completamento reciproco: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2).

(tratto da: http://www.opera-fso.org/italiano/?p=127)