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Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui,
porta molto frutto,
perché senza di me
non potete far nulla
(Giovanni 15,5)

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Comunità virtuali o reali?

Alcuni tragici fatti del 2010 ci fanno riflettere sull’uccidersi, o tentare di farlo, per Facebook.

In un caso, gridando la propria disperazione nella piazza virtuale rimanendo inascoltati. Nell’altro, perché non si sopporta la vergogna di essere stati messi in quella piazza dai compagni, e non si accettano le conseguenze delle proprie azioni.

Aveva solo 17 anni un ragazzo di San Donà di Piave che ha annunciato su Facebook di volersi gettare nel Piave, e due ore dopo lo ha fatto davvero. «Basta, sono stanco di tutto e tutti - aveva scritto sul suo profilo -. Non mi fido più di nessuno, mi fa troppo schifo vivere così e ci sono troppo dentro per venirne fuori». Oggi tutti a chiedersi perché non avevano capito l’'imminente tragedia.

A distanza di una manciata di ore, un altro ragazzo fragile, 14 anni appena e un ottimo profilo di studente, ha tentato il suicidio a Genova gettandosi dalla finestra della sua abitazione, a causa dei rimproveri per alcune fo­to scattategli in aula mentre sbeffeggiava la professoressa e messe su Facebook dai compagni. Immagini che hanno fatto il giro delle Rete in poche ore. Non ha retto allo sconforto e alla vergogna ed ha deciso di com­piere il gesto assurdo poche ore più tardi.

Quello di San Donà era il terzo suicidio di un adolescente annunciato su Facebook in pochi mesi. L'ultimo, sempre in Veneto, era di un diciassettenne, studente modello, che si era sparato dopo averlo annunciato sul suo profilo. «Non reggo il male di vivere, non ce la faccio più», le sue ultime parole, seguite all’iscrizione al macabro gruppo Che ne dici di farla finita?”, che ha per logo l'immagine di una pistola. Alcuni mesi prima, un quindicenne di Torre del Greco, già tre giorni prima del suicidio aveva lasciato frasi del tipo «Sto arrivando all’aldilà». Segnaliche non sono stati captati da nessuno: né dai genitori, ignari del profondo disagio psicologico del ragazzo, e neppure dagli amici di scuola [1].

Il sociologo Giuseppe Romano, commentando i tragici fatti,spiega che i social network sono spazi concreti dove avvengono e si dicono cose vere. Per questo anche lì è urgente educare alla responsabilità. Credere che ciò che accade su Facebook, ad esempio, non sia realtà significa non rendersi conto che tut­to quello che viene messo in comune, condiviso”, diventa pubblico, assumendo un significato diverso e più ampio, sociale.

La radice va ricercata nella mancata consapevo­lezza del peso di ciò che succede in Rete, di ciò che si dice, si ascolta, si discute nei social network. Tutto ciò è realtà. Si parla di realtà virtuale”, come se ciò che accade online fosse astratto, come se la Rete fosse un luogo in cui non esistono leggi o re­sponsabilità. Il ragazzo di Genova è arrivato a tentare il suicidio perché non pensava che il suo gesto,riportato su Facebook, potesse avere simili conseguenze nella realtà. Gli altri ragazzi hanno ur­lato il loro dolore online, ma evidentemente nessuno ha pensato che si trattasse di un grido reale, qualcosa che potesse avere conseguenze nella vita concreta. Il problema è che spesso non viene ricono­sciuta a Internet la sua vera potenzialità, la sua dimensione sociale concreta, e nemmeno l'importanza di quelle regole di responsabilità che in ogni contesto sociale e di relazioni debbono esistere.

Occorre che lo comprendano gli adulti per primi, e lo insegnino ai ragazzi, spiegando che non è più “mio” quello che metto in comune. Troppo spesso viene sottovalutato l'aspetto pubblico di ciò che avviene in Rete: non esiste più un’area di gioco o di azione privata; ciò che si dice viene ripetuto, tut­ti ne parlano, tutti lo ascoltano o - come drammaticamente avvenuto - nes­suno lo ascolta. Ma di nuovo sta lì, nella piazza della realtà, e come tale ha un pe­so [2].

Anche Benedetto XVI denuncia come possibile punto cieco di Internet l’illusione che il mondo della Rete  non sia davvero reale. Il cortocircuito facile e fasullo asserisce che esistano due vite: quella “reale” e quella “virtuale”. È falso, come fin troppo spesso mostrano le vittime di aggressioni, raggiri e violenze maturati a partire dall’ambito digitale. La vita è una sola; anche nella rete ci portiamo appresso personalità e responsabilità. La realtà virtuale non esiste, esiste soltanto quest’unica vita di ciascuno e di tutti, di qua e di là dello schermo.

E in questo cortocircuito che trovano spa­zio, dunque, tragedie simili? Sì. E ovviamente in quello che il cortocir­cuito genera: se infatti non viene ricono­sciuta a Internet la sua potenzialità reale,

la sua dimensione sociale concreta, non si riconosce nemmeno l'importanza di quel-le regole di civiltà e di responsabilità che in ogni contesto sociale e di relazioni debbo-no esistere. In questo senso, purtroppo, Fa­cebook è rimasto proprio fermo a quello che significa il suo nome: un "libro-fac­cia", in cui si spiattellano informazioni, gossip, segreti ma in cui non esiste un'in­terazione matura, in cui non c'è ombra di tunànità e di rispetto.

Cosa fare, dunque, per prevenire gesti estremi?

Capire, noi adulti per primi, che ciò che avviene online ha un'eco reale oltre che tecnologico. E poi insegnarlo ai ragazzi, spiegando anche che non è più "mio" quello che metto in comune. Anche l'aspetto pubblico di ciò che avviene in Rete troppo spesso viene sottovalutato: con evidenza non esiste più un'area di gioco o di azione privata, ciò che si dice viene ripetuto, tut­ti ne parlano, tutti lo ascoltano o - come drammaticamente nel caso veneto - nes­suno lo ascolta. Ma di nuovo sta lì, nella piazza della realtà, e come tale ha un pe­so.

Di un altro punto critico se ne èparlato a maggio 2011 nel convegno Abitanti digitali.

Il 12 marzo 2011, all’aeroporto di Fran­coforte, Arid Uka, un ragazzo musulmano d’o­rigine albanese che vive in Germania, compie una strage terroristica contro un bus dell’avia­zione americana. Il ragazzo confessa di aver agi­to dopo aver visto su YouTube un vi­deo che testimonia lo stupro di alcu­ni soldati statunitensi su una ragazza in Iraq. Dopo quattro giorni il maga­zine Spiegel tv scopre che il filmato è una sequenza del film «Redacted» di Brian de Palma. Ma la sequenza choc è stata inserita sul web senza alcun riferimento al film, dando vita a seg­menti di racconto decontestualizza­ti.

Ruggero Eugeni, docente di semiotica dei media all’Università Cattolica di Milano, spiega che una delle tra­sformazioni che le dimensioni dello spazio e del tempo hanno avuto su Internet è l’essere accompagnate da forme narrative deboli, magari e­strapolate dal contesto.

Altri caratteri salienti dell’e­sperienza web sono l’immediatezza, che concentra tutto su una «finestra del presente» e la «messa in scena del sé attraverso l’in­timità esposta e pubblica, seppur va­riamente graduata». Ecco perché occorre «educare alla consapevolezza del tem­po e dello spazio in Rete». Se davanti al computer le due dimensioni sono vissute come ambiti «della relazione» e «le con­trapposizioni tra virtuale e reale, oppure locale e globale tendono ad eclissarsi», allora serve un ri­pensamento e una riflessione dell’esperienza relazionale immediata perché l’in­contro via web sia «funzionale a un progetto di u­manesimo integrale»[3].

 

Nel grande mare del Web, è bello far nostra la preghiera dell’internauta di Patrizio Righero:

Ti ringrazio, Signore, per questo spazio im­menso, per questa vi­ta a colori, per questi incon­tri che forse non sono così casuali. Tuttavia, Signore, ti chiedo di non lasciarmi af­fogare».

[1] Cfr. F. Dal Mas e D. Frambati, Facebook e suicidi: ragazzi nel baratro, in Avvenire, 22 maggio 2010.

[2] Cfr. V. Daloiso, La vita della Rete? È realtà, in Avvenire, 22 maggio 2010.

[3] Cfr. G. Gambassi, Eugeni: nella Rete c’è la necessità di educare alla consapevolezza del tempo e dello spazio, in Avvenire, 20 maggio 2011.