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Le parole della Sacra Scrittura crescono insieme a chi legge; quanto più profondamente fissi lo sguardo in esse, tanto più profondamente le comprendi (san Gregorio Magno).

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Come leggere i Vangeli?
(Enzo Bianchi)

“Secoli di lettura prevalentemente reli­giosa ci hanno fatto dimenticare che i quattro vangeli erano anzitutto racconti.

La lettura “prevalentemente religiosa” dei vangeli era ed è ancora essenzial­mente la lettura liturgica: non una lettura personale diretta, ma l’ascolto di un brano evangelico nella proclama­zione pubblica durante la liturgia euca­ristica. La proclamazione liturgica, a tutt’oggi la modalità attraverso la quale la grande maggioranza dei credenti si accosta ai vangeli, è dominata dal criterio del taglio e della selezione dei brani, sicché non vi è mai il contatto con l’intero testo evangelico, ma solo con pericopi, cioè spezzoni più o meno lunghi. Lettura “prevalentemente religiosa” rinvia anche a una lettura che per secoli è stata guidata da criteri soprattutto teologici o spirituali o morali (edificanti e parenetici). Eppure sono i vangeli stessi a dichiarare il loro statuto di “nar­razione”.

Il prologo del terzo vangelo (Lc 1,1) introduce il vangelo parlando di dièghesis (narratio). E se ogni narrazione è narrazione di una storia, ciò che viene narrato nei vangeli è la “storia di Gesù”. L’evangelista Luca, all’inizio della se­conda parte della sua opera narrativa (costituita dal vangelo e dagli Atti degli apostoli), specifica che il contenuto del suo vangelo è “tutto ciò che Gesù fece e insegnò”. (At 1,1). 

Leggere i vangeli come un racconto è dunque richiesto dai vangeli stessi. E solo in questo modo essi libereranno anche il loro messaggio religioso. La fede biblica, in­fatti, che crede un Dio che avviene nella storia e nella compagnia degli uo­mini, si esprime nel racconto. La Bibbia dice Dio non formulando astratti prin­cipi teologici o filosofici, ma narrando una storia, anzi, una storia di storie. Non definibile, il Dio biblico è però raccontabile. E i vangeli, che vedono in Gesù di Nazaret l’umanità di Dio, colui che nella sua esistenza ha raccon­tato Dio, non possono che aver forma di racconto. Gesù, il non teologo, è il narratore di Dio, colui che ne fa un’esegesi vivente, con le sue parole e con la sua pratica di umanità. La finale del prologo del quarto vangelo parla dell’incarnazione come della narrazione di Dio operata da Gesù: “Nessuno mai ha visto Dio, il Figlio unigenito...lui lo ha raccontato (exeghèsato)” (Gv 1,18). La narrazione della storia di Gesù ha il compito di far vedere colui che nessuno può vedere: “Chi ha visto me” dice Gesù “ha visto il Padre” (Gv 14,9). Molto più tardi (XII secolo), Ruperto di Deutz potrà scrivere: “Quando leg­giamo la Scrittura abbiamo davanti agli occhi il Figlio di Dio”. Ecco dunque la lettura dei vangeli: esperienza sensoriale e perciò spirituale che pone il lettore in contatto con Gesù rendendo presente l’assente.

Attenzione importante da avere nella lettura dei vangeli è la distinzione tra evento storico e storia raccontata o, per dirla all’inglese, tra history e story. Molte cattive letture dei vangeli sono dovute alla confusione tra narrazione e fatto storico. Si ritiene che, come sta scritto, così siano andate realmente le cose. Ora, lo stesso metodo storico-critico ha mostrato che il significato letterale di un testo è già un significato spirituale, cioè un significato connesso a un’interpretazione, a una determinata comprensione dell’evento stesso. Se la narrazione racconta una storia che si è effettivamente svolta in un certo tempo e luogo, essa non solo non ne è la foto­grafia, ma è il risultato della regia del narratore che ha costruito il racconto utilizzando le fonti (orali e scritte) che aveva a disposizione, ricorrendo agli strumenti espressivi letterari in voga al suo tempo e perseguendo un intento particolare spesso connesso ai destinatari dello scritto. Il tutto combinato con il suo genio proprio, letterario e teologico.

I vangeli sono testi nati in contesti geo­grafici e storici diversi, destinati a diffe­renti comunità cristiane, sicché possiamo parlare di Marco come del vangelo “ro­mano”, di Matteo come del vangelo “antiocheno”, di Luca come del vangelo “greco” e di Giovanni come del vangelo “efesino”, in base alle comunità desti­natarie. La presenza debordante del tema della Legge, della Torah mosaica, nel vangelo secondo Matteo, si spiega con la consistente presenza di cristiani provenienti dall’ebraismo nella comunità di Antiochia a cui Matteo destina il suo vangelo e con le domande che si ponevano a proposito della Torah stessa: quale valore conserva la Torah per i cri­stiani? L’osservanza della Torah è im­portante per i cristiani provenienti dal-l’ebraismo come per quelli che proven­gono dal mondo pagano? Gesù ha abo­lito la Torah? La Torah deve essere ob­bedita scrupolosamente in tutti i suoi precetti anche minimi? La distanza cro­nologica tra la composizione dei vangeli e gli eventi della vita di Gesù è notevole e si può calcolare in più di trent’anni, e anche questo rende evidente la distanza fra evento e racconto dell’evento. In sostanza, i quattro vangeli possono essere considerati quattro inculturazioni dell’unico vangelo.


Una parabola, anche se parla di un contadino che semina, non intende in­segnare il mestiere di agricoltore. Le parabole sono microracconti, immagini sviluppate in brevi o brevissime trame che parlano di Dio senza menzionarlo e narrando storie della più ordinaria quotidianità e di cui sono protagonisti personaggi comuni: una massaia, dei pescatori, un contadino, un pastore che perde una pecora, un padre con due figli, un uomo ricco che imbandisce un banchetto...All’interno di questo mondo ordinario, che è anche quello del lettore, la parabola apre una finestra che consente al lettore di guardare il mondo in modo radicalmente rinnovato. Secondo Paul Ricoeur, le parabole sono “racconti della normalità” che hanno il potere di ri-orientare la vita dell’uomo attraverso il disorientamento; esse agi­scono attraverso tre elementi narrativi nevralgici che diventano momenti esi­stenziali decisivi per l’uomo: l’evento, la conversione, la decisione. Il carattere spiazzante del comportamento di un protagonista delle parabole produce un effetto sorpresa nel narratore che lo può condurre a un ripensamento e a una decisione che rinnova la sua esi­stenza. Il paradosso abita la logica delle parabole: ciò che umanamente è piccolo e perfino insignificante diviene straor­dinariamente grande nella logica del Regno (Mt 13,31-33). La parabola scon­certa: il proprietario di una vigna che, dopo aver assoldato uomini alle diverse ore del giorno perché vi lavorino e aver
promesso di dare loro il giusto salario, dà a chi ha lavorato un’ora sola tanto quanto a chi ha lavorato tutto il giorno, stupisce e scandalizza il lettore che si attenderebbe una giustizia secondo il merito di ciascuno e una retribuzione adeguata alla quantità di lavoro svolto (cfr. Mt 20,1-16). Con questo spiazza-mento la parabola fa intravedere l’agire scandaloso di Dio e la possibilità di un mondo non più dominato dalle ferree regole della corrispondenza fra lavoro e retribuzione, ma sotto il segno della gratuità e dell’amore. Il proprietario terriero che, dopo aver inviato tanti servitori a ritirare i frutti della sua vigna e aver raccolto solo rifiuti e aver visto picchiati e uccisi i suoi servi, decide di inviare il suo stesso figlio, scandalizza e irrita il lettore, ma Gesù sta narrando l’amore folle di Dio per l’umanità con il linguaggio metaforico della parabola (Mt 21,33-46).


Questo linguaggio, che provoca un vero shock nel lettore, è in realtà il linguaggio del Regno di Dio: anche il Regno, come la parabola, è ve­lato e paradossale, misterioso e spiaz­zante, dinamizzante e responsabilizzante. Del resto, se Gesù narrava Dio in para­bole, per le comunità cristiane primitive Gesù era non solo la Parola ma anche la Parabola di Dio.

 

Il vangelo postula un rapporto particolare con il lettore, assolutamente non assi­milabile a quello supposto da una bio­grafia. Esso tende al coinvolgimento del lettore, alla sua decisione di fede. In Giovanni 20,30-31 vi è un’espressione che vale non solo per il quarto, ma per tutti i vangeli. Dice l’evangelista: “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, cre­dendo, abbiate la vita nel suo nome”. Del resto, per i primi cristiani e sempre, anche oggi, per i credenti, il Gesù di cui il vangelo racconta la storia non è un personaggio ormai morto, un eroe del passato, ma è vivente, è una presenza attuale di cui il credente percepisce la presenza nella fede. Leggendo il vangelo, il credente incontra Colui che attraversa il presente della sua vita e orienta il suo vivere oggi. La narrazione è “linguaggio di incarnazione” e anche questo spiega la scelta della modalità narrativa come costitutiva dei vangeli. “Il vangelo” ha scritto quel finissimo lettore dei vangeli e degli Atti degli apostoli che è Daniel Marguerat “si presenta come una su­perficie porosa in cui, costantemente, attraverso la rete dei personaggi, il lettore è afferrato al cuore stesso del dramma che si svolge.”

Tra gli strumenti più immediati che il narratore offre al lettore per entrare nel racconto evangelico vi è la rete di per­sonaggi che costella il testo. La narrazione introduce in un mondo di personaggi che costituiscono altrettante offerte di identificazione. Il narratore associa il lettore alla vita interiore dei personaggi, alle loro riflessioni, alle loro azioni e l’identificazione con un personaggio consente al lettore di partecipare emo­tivamente alla narrazione. Il lettore prova anche lui il dolore che avvertì Pietro quando si sentì chiedere per la terza volta da Gesù: “Mi ami tu?” (Gv 21,17); il lettore sente fastidio per i pensieri che abitano il cuore del fariseo Simone alla vista della donna che si av­vicina a Gesù (Lc 7,39), ma si interroga anche sulla capacità di doppiezza che a volte alberga nel suo stesso cuore; il lettore resta ammirato vedendo l’ostinazione con cui la donna cananea “non molla l’osso” e, nonostante i compor­tamenti duri e respingenti di Gesù, alla fine vince le sue resistenze e lo convince a intervenire per la figlia malata (Mt 15,21-28). E riflette sulla potenza di motivazione che la sofferenza di una figlia costituisce per una madre. I molti personaggi che circondano e incontrano Gesù rinviano il lettore alla molteplicità di atteggiamenti possibili in relazione a Gesù stesso. Tra questi un ruolo pri­vilegiato spetta certamente ai discepoli, nei quali il credente di ogni tempo in­travede reazioni e comportamenti che possono essere anche suoi; le donne che seguono Gesù dalla Galilea sono presenza discreta, ma costante; quindi troviamo le folle, poi i singoli perso­naggi che compaiono in un solo epi­sodio: la donna di Samaria (Gv 4,1­42), l’uomo cieco dalla nascita (Gv 8,1-11), la peccatrice che piange ai piedi di Gesù e diversi personaggi mi­nori, che, a volte, compaiono e scom­paiono come meteore. Si pensi al mi­sterioso “ragazzo” che fuggì via nudo al momento dell’arresto di Gesù in Marco 14,51-52. Ovviamente questi personaggi, anche quando ritornano in tutti i vangeli, come i discepoli, sono caratterizzati con modalità molto diverse da ogni evangelista e consentono al lettore percorsi identificativi variegati. Rappresentano cioè modalità differenti di correlazione tra la vita del lettore e la vita dei personaggi evangelici, maniere diverse con cui il lettore, mentre legge il testo biblico, si lascia leggere da esso, modi distinti di costruire la propria umanità alla luce dell’umanità dei personaggi del vangelo. Il racconto evangelico è l’offerta di una visione del mondo ma anche di una pratica di umanità. La storia di Gesù è la storia della sua maniera di vivere il mondo, di abitare il corpo, di impostare le re­lazioni, di gestire la parola, insomma, di vivere l’umanità. Leggere i vangeli significa pertanto cogliere l’umano che è in Gesù e correlarlo alla propria umanità.

Seguire i percorsi interiori che Gesù vive nei vari frangenti narrati dai vangeli rappresenta un’affascinate avventura alla scoperta della vita inte­riore di Gesù. Perché Gesù non fugge davanti all’energumeno che gli si para davanti proferendo parole di rigetto nei suoi confronti? Cosa ascolta Gesù? Forse, intuisce il lettore, colmando in non detto del testo, Gesù sta ascoltando la sofferenza dell’uomo da cui nasce, come unico linguaggio possibile, quello dell’aggressività (Mc 5,1-20). Il lettore resta colpito dalla compassione che scuote Gesù alla vista delle folle nu­merose che attendono una sua parola e che lo portano a derogare da progetto di riposo per sé e per i suoi discepoli: la decisione presa può essere revocata di fronte al bisogno dell’altro (Mc 6,30­44). Vedendo lo sguardo di amore orientare la propria vita in obbedienza alla volontà del Signore, il lettore scopre in Gesù un uomo capace di af­fetto, di sentimenti di amicizia (Mc 10,17-21). Leggendo le parole dure che rivolge (o grida?) ai discepoli, il lettore scopre un uomo capace di toni forti e vibrati, un uomo di passione e di con­vinzione che vorrebbe vedere reagire con maggiore rapidità e profondità ai suoi discepoli (Mc 8,14-21). La narra­zione della storia di Gesù diviene così occasione per il lettore di confronto con la propria storia e con la propria pratica di umanità.

 

Enzo Bianchi

(tratto da solidando.net)