Salmo 23 - Libero commento di Rocco Quaglia
Inno di Davide
1 [יהוה] è il mio Pastore, non mancherò di nulla.
2 In prati d’erba mi farà giacere;
su acque tranquille mi condurrà.
3 L’anima mia ristorerà;
mi guiderà nella via della rettitudine,
a motivo del suo Nome.
4 Anche quando andrò nella valle dell’oscurità profonda,
non avrò paura del male, poiché Tu (sarai) con me.
La tua verga e il tuo bastone
mi daranno conforto.
5 Tu imbandirai davanti a me una tavola di fronte ai miei nemici.
Ungesti con olio il mio capo:
il mio calice trabocca.
6 Certo, bene e bontà mi correranno dietro,
tutti i giorni della mia vita;
e io ritornerò nella Casa di [יהוה] per la lunghezza dei giorni.
Proemio
Recitare i salmi, per un ebreo, vuol dire ridare voce e parole ai sentimenti di Davide; per noi cristiani, significa entrare nei sentimenti del Figlio di Dio. Il Padre ha previsto tutte le difficoltà, le speranze, i timori dell’uomo; ha pesato e misurato tutti gli affetti del suo cuore e, infine, li ha vissuti in un corpo di carne. Ogni moto dell’animo umano è stato gustato, affinché ogni cosa fosse inumata con la morte e purificata mediante la risurrezione.
Nel salmo 12 si trova scritto: «Le parole dell’Eterno sono parole pure, sono argento affinato in un crogiuolo di terra, purificato sette volte» (v. 6). Gesù, nel quale abitavano le parole del Padre, è il crogiuolo di terra, purificato sette volte, una volta per ogni parola emessa sulla croce. Dolori, ingiustizie, errori trovano, nelle preghiere dei salmi, le giuste Parole, e noi possiamo in ogni momento farle nostre e innalzarle nuovamente al Padre.
Il Figlio di Davide recitava i salmi durante le preghiere notturne, quando le stelle si ammassavano senza fine nei cieli oscuri di Sion; li ha cantati con gli amici durante l’ultima cena, li ha mormorati nei momenti di solitudine, li ha gridati nell’ora dell’abbandono, quando l’amore di Dio s’incendiò sul legno della croce.
Nel salmo 23, il salmo della fede, Dio ci dona le parole per dire, quando tutte le parole umane sono consumate dalla siccità e dalla carestia, quando il cuore diventa una cisterna prosciugata, e l’anima un deserto rovente. Sì, sono parole da pronunciare quando il cielo si chiude sopra di noi come una lastra di piombo, e gli spaventi fugano sonno e sogni. Sono parole, dunque, che chiedono una voce, per poter far ritorno a Colui che le ha ispirate; chiedono la voce che è prima di ogni parola e tutte le contiene, la stessa voce che dal deserto giunge al Golgota, e dal Golgota al cielo.
Inno di Davide
Chi scrive è il re Davide, l’interprete più accreditato, nel Vecchio Testamento, del sentimento di Dio. Non è il re, carico di gloria e alla fine della sua vicenda umana, ma è il ragazzo, con ancora il suo piccolo gregge nel cuore, a rivolgere questa preghiera al cielo nella solitudine della notte. In questa preghiera vi è intatto il profumo del “Primo Amore”, di quell’amore forte come la morte (Can 8,6). Davide travasa, in queste parole, tutto il contenuto del suo animo e, infine, celebra la vittoria dell’amore su tutti gli spaventi del cuore.
Davide sta fuggendo dalla presenza del re Saul, la cui mente è sconvolta da un’angosciosa follia: gelosia e invidia si contendono la mente del re, poiché «l’Altissimo era con Davide» (1Sam 18,28). Il giovane Davide onorava il re, l’unto del Signore; lo guardava come un figlio guarda il padre designato dal cielo, e non sospetta di apparire come nemico e rivale. Nella follia del re, valutiamo la presenza di un sentimento gravemente immaturo, incapace di rivivere con la nuova generazione i sogni della propria giovinezza.
Davide è in fuga: secondo un midràsh, passò la notte nascosto in una desolata foresta. Solo, lontano dalla casa del padre e dalle certezze dell’infanzia, anticipa nel suo animo l’angoscia del suo Signore nel Getsemani.
Dio aveva messo Davide accanto a Saul per arginare la follia del re, ma contro la follia nulla può l’amore se non morire e risorgere.
Davide con il suo amore aveva esasperato Saul: nulla può fare maggior male ad un cuore insano di un amore fatto di solo amore. L’amore toglie al peccato ogni giustificazione di essere.
Il midràsh vuole che Dio abbia risposto alla preghiera di Davide, inviando dal cielo la rugiada, irrorando tutta la foresta. La sete di Davide fu così estinta. L’erba e le foglie bagnate divennero mangiabili, e acquisirono al palato la dolcezza del mondo a venire.
Davide soffre a causa della propria bontà, è l’esperienza della croce. Davide ama Saul, e il suo dolore diventa pari all’odio suscitato dal suo amore. Non vi sono sulla terra ragioni di un tale dolore, perciò Dio invia la sua Parola.
[יהוה] è il mio Pastore
Ineffabile è il Nome santo di Dio, Egli è l’Impronunciabile, il “Dio ignoto”, cui si accede per sola fede, contro cui ogni conoscenza, ogni pensiero ed ogni emozione si frantuma come l’onda bianca contro la scogliera. Egli è l’Iddio di tutti e che a tutti si manifesta in un solo modo; per fede chiunque può dire: Ineffabile è il mio Pastore.
In fuga dalla corte dell’unto di Dio, Davide, pur accettando la volontà del Cielo nelle cose che sono, ha rinunciato a comprenderla. Dopo aver distolto lo sguardo dal paese, dagli amici, dalla propria casa, può ora rivolgersi verso gli eterni pascoli dello Spirito, verso Colui che governa ogni cosa dalla stella più remota al più piccolo filo d’erba. Se il Dio di Davide avesse un nome tutto sarebbe circoscritto ad un luogo e ad un tempo; ma Davide si rivolge a Colui che È, può dunque aprirsi al mistero dell’ignoto, agli abissi dell’eternità, al segreto della vita. Davide si sottomette ad una realtà che non ha parole. In quel che non si può dire, un contatto s’instaura tra Colui che è su, di là dei cieli, da sempre e per sempre, e colui che è sotto i cieli, vagabondo per un momento soltanto. In Davide, come in Gesù, possiamo contemplare Caino in fuga tra gli uomini.
La preghiera di Davide si apre con una dichiarazione di fede in Colui che non si può nominare. Alle soglie di una realtà, che non si può conoscere né oltrepassare, egli esclama il proprio stupore e sbigottimento. Di fronte alla bocca dell’Eternità, vi scorge riflessa la propria esistenza tra pecore e agnelli, e una parola gli sfugge: Ineffabile è il mio Pastore. Davide ha incontrato «Colui che È».
Ogni immagine di Dio è vana, ogni pensiero su Dio è povero: di Dio possediamo soltanto un’impronta in quel che nella nostra vita è compiuto.
«Le sue invisibili perfezioni, la sua eterna potenza e divinità si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo, e noi le intendiamo per mezzo delle sue opere» (Rom 1,20).
Davide ha sentito le mani di Dio plasmare la sua vita, una vita ad immagine di Dio, di cui è figura il pastore. Nell’incontro con il Dio che È, il tempo esplode: nel Nome senza nome (יהוה), vale a dire in «Colui che è e farà essere» in un tempo senza fine, Davide scopre il grande affresco di un progetto nel quale tutto coopera al bene soltanto (Rom 8,28). La fede non è mai fede in un Dio che esiste e che crea, ma è fede in un Dio che opera e che cura: cura i prati con la rugiada, con i fiori, con gli amori. Davide misura l’amore di Dio, riferendosi al proprio amore, un amore pronto ad affrontare il leone del deserto, e a difendere il proprio agnello: è l’amore di chi è pastore, è il suo stesso amore.
Ogni rivelazione di Dio si accompagna ad una rivelazione di noi stessi: Dio è nostro Pastore, se noi siamo pastori per gli altri. Dio è Colui che risponde non alle nostre domande, ma in quel che noi rispondiamo agli altri. Fede nell’amore di Dio è fede nell’amore che sentiamo per gli altri. L’amore di Dio è quello stesso amore che sappiamo far vivere in noi, poiché Dio non è diverso dall’amore che sentiamo: il cuore è il vero cielo dell’uomo. Davide può dire Ineffabile è il mio pastore, poiché sa che nessun agnello del suo gregge è mai stato abbandonato nel deserto, o è stato lasciato solo all’apparire del leone.
… non mancherò di nulla
Davide non ha nulla, ma sa che nulla gli appartiene; nella consapevolezza di non appartenere neppure a se stesso, può ora dire: «nulla mi manca», poiché nulla può essergli tolto.
Il verbo usato nel salmo è chasàr [חסר], e significa mancare, sia nel senso di “soffrire penuria”, sia nel senso di “diminuire”; ma vuol dire anche “venir meno”. Davide non si sta preoccupando per quel che mangerà, e neppure è angustiato per la perdita dei privilegi alla corte del re. Egli sta dicendo a Dio e al proprio cuore che lo Spirito in lui non verrà meno, poiché è scritto: «Il vaso della farina non calerà e il vaso dell’olio non verrà meno» (1Re 17,14). Davide sta, dunque, facendo una dichiarazione di fede, una promessa di speranza in Colui nel quale ha creduto. La relazione esistente tra il pastore e la pecora diventa l’unica metafora capace di esprimere il solo rapporto possibile tra Dio e l’uomo, o tra l’amore gratuito di Dio e il costante bisogno di cure dell’uomo.
Gesù nell’affermare: «Io sono il buon pastore che dona la vita per le sue pecore» (Gv 10,11), idealmente risponde a quel che implicitamente Davide aveva anticipato e suggerito. In altre parole, Gesù, Signore e Figlio di Davide, è l’Ineffabile Pastore che non fallirà.
Non verrò meno, Padre,
quando tutti i miei giorni
fuggiranno senza più memoria,
e come un albero senza rami
mi porteranno via.
Non verrò meno, Padre,
quando con feroci stelle
verrà la notte
e con oscure dita
frugherà là dove il cuore prega.
Non verrò meno, Padre,
quando alle fiaccole dei nemici
più della luna impallidirà la mia tunica,
da mani amate, amata.
Non verrò meno, Padre,
quando, nel giorno malvagio,
resterà sospesa l’anima,
come una bandiera dimenticata sul campo.
Non verrò meno, Padre,
quando, infine solo,
ad un nero cielo
griderò forte:
“Perché lo hai fatto?”
In prati d’erba mi farà giacere; su acque tranquille mi condurrà
L’immagine del Dio Pastore è una figura completa, avente aspetti sia materni, sia paterni. Sono molte le lezioni che si possono trarre dalla natura della relazione che Davide vive con il suo Dio Pastore, in una corrispondenza di bisogni e in una reciprocità di significati. Prati verdi e acque tranquille costituiscono la naturale cornice di un paesaggio interiore di pace e di sicurezza. Dio si rivela a Davide in quel che Davide è, vale a dire “pastore”; l’amore che Davide sperimenta è, per intensità, pari all’amore che egli sente per le proprie pecore. Dio sempre si rivela nell’amore che siamo in grado di provare e di tollerare. La fede che Dio chiede non si fonda su una credenza o su una ragione della mente, ma poggia sul sentimento che più di ogni altro rende la creatura vivente, come Lui è Vivente.
L’immagine del pastore ci parla di un rapporto fatto di cure e di dedizione al gregge: il premio del lavoro di un pastore è nel “benessere” delle proprie pecore. In questo premio è il principio cardine di ogni autentico rapporto educativo, vale a dire il bene dell’altro, in particolare della nuova generazione, come genuina fonte di gioia. A differenza dell’insegnante, che istruisce con specifici contenuti, l’educatore ha il compito di “far conoscere” la gioia: è la gioia, infatti, a creare benessere, a promuovere interesse, a far nascere la domanda della vita. Paolo gioiva della gioia dei Corinzi (2Cor 2,3), poiché la gioia di Paolo era la gioia di Cristo, e la gioia di Cristo era la gioia del Padre: per questo Paolo poteva scrivere: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). È questa la gioia che un educatore cristiano deve saper comunicare, sapendo che è una gioia che non si esaurirà mai, a differenza di tutte le altre gioie, che sono per un tempo soltanto.
Il salmo 23 è simile al belato di una pecora: non al belato di una pecora impaurita per un improvviso rumore nella notte, ma al belato della pecora, che ha udito la voce rassicurante del pastore, e risponde per rasserenarlo a sua volta.
La tua voce, Signore,
corre nel volo del mattino tra vergini stelle,
nel trasalire del mormorio di monti,
nel vento sottile tra ciuffi d’erba;
ecco, scivola sulle cime dei pini,
nel canto delle scogliere,
lungo spiagge di spezie e d’aromi.
È nel brivido di neve appena sciolta,
nei passi di chi ha un’ombra di luna,
nel respiro di chi bacia un volto caro.
Nel mio cuore rappacificato,
ti prego, torna a dormire!
(Isp. al Cantico dei cantici)
L’anima mia ristorerà; mi guiderà nella via della rettitudine, a motivo del suo Nome
Il verbo «ristorerà» si può tradurre: «farà ritornare l’anima mia com’era». L’anima, idealmente trasportata e immersa nelle acque primordiali delle sorgenti superiori, sarà restituita alla sua antica bellezza.
Ora, nel giorno della grazia, una via di rettitudine è stata aperta, e conduce al Padre. Un Buon Pastore è venuto, ha raccolto le sue pecore, le ha radunate in numero di cinquemila: cinque è numero di grazia, una grazia moltiplicata per mille, e che perdura fino alla millesima generazione (Es 20,6). Tutte le pecore sono state nutrite, nel «luogo dove vi era molta erba», in riva ad acque rese calme (Gv 6,10): qui, Gesù diede loro da mangiare pani e pesci, il prodotto dell’erba e delle acque.
La via della rettitudine è la via della pace, ogni deviazione è segnalata da un turbamento dell’anima, che presto diventa terreno di grandi battaglie. È una via diritta che collega, con il più breve percorso, la nascita di ogni uomo con la meta della propria esistenza. Mille sono i sentieri a destra, quanti sono i desideri del cuore, e diecimila i sentieri a sinistra, quante le paure dell’anima; tutti appaiono diritti, ma uno solo s’immerge nell’eternità.
Molte sono le opere di Dio e tutte portano un nome; tuttavia, vi è un Nome che non è stato ancora rivelato, quando l’opera dell’attuale creazione sarà compiuta, allora soltanto conosceremo. Per fede sappiamo che «grandi cose ha fatto in noi l’Onnipotente» (Lc 1,49); per fede comprendiamo che un progetto di vita ha Egli racchiuso nel suo Nome. Ora, è a motivo di questo Nome che Egli guida cieli e terra: per amore del suo Nome, tutto permette, tutto sopporta, tutto ama.
Davide ha scelto il Signore come suo Pastore, e una tale scelta comporta l’accettazione del piano di salvezza contenuto nel Nome; egli può contare su un Dio che gli ha rivelato l’aspetto pastorale di questo Nome. Dio ama l’uomo, poiché l’uomo è scritto nel suo Nome. Un tale amore non si può comprendere, poiché l’amore non ha motivazioni, non ha nessuna ragione di essere, ma semplicemente è. Confrontarsi con questo amore e accettarlo comporta scandalo e pazzia, perdizione e salvezza, obbrobrio e gloria. L’amore non argomenta, non ha pensieri, non ha conoscenze, né spiegazioni, né insegnamenti, né convinzioni. L’amore ha un Padre, un regno, una casa: la porta si apre per fede, perciò soltanto dall’esterno, e la fede è in quel che le parole non sanno dire.
Il Nome di Dio è la causa prima di ogni creazione, la motivazione profonda di ogni suo intervento nel mondo dell’uomo. Gesù ci insegna a dire: «sia santificato il tuo Nome» (Mt 6,9). Cos’è mai dunque il Nome di Dio? E come può essere santificato? Soltanto i significati più arcaici delle radici delle parole ebraiche possono in minima parte venirci in aiuto. Ricordiamo che Dio ha scelto una lingua per parlare agli uomini, e questo è un elemento che non può essere trascurato. Il Nome di Dio è il Nome che comprende tutti i nomi, ed è oltre ogni nome; tuttavia, anche la parola Nome, intesa come involucro del Nome di Dio, ha qualcosa da rivelarci.
Il “nome”, in ebraico שם (shem), è il segno che rende conoscibile una persona, in un luogo e in un tempo. Ora, il suono delle lettere ם (mem) e ש (shin), che insieme formano anche la parola שם (sham), ossia l’avverbio «là», nello stile geroglifico, indica l’interezza dello spazio che una persona occupa, uno spazio concepito sfericamente. Il nome circoscrive, dunque, un ideale “luogo” entro il quale gli individui devono sviluppare il “Sé” augurale contenuto, appunto, nel proprio nome, in linea anche con la formula latina In nomine omen.
In Genesi si legge:
«E fece Dio la distesa e divise le acque [eb. מים (maim)],
che sono sotto la distesa dalle acque מים (maim),
che sono sopra la distesa,
e Dio chiamò la distesa cieli שמים (shamaim)»
(Gen 1,7-8).
I padri ebrei, nel midrash, dividono in due la parola שמים (shamaim/cieli), formando שם (sham) e מים (maim), e vi leggono: «Là, acque!» o «tra le acque», indicando così uno “spazio”. Nulla sappiamo della reale natura di queste acque, ma una «distesa sferica» è in mezzo ad esse. Dio dunque ha circoscritto uno spazio - tra le acque - nel quale manifesterà il Nome, o il Segno che lo renderà riconoscibile. “Là” deve dunque verificarsi un evento, ed è a motivo di questo evento che la sua Parola regge e conduce ogni cosa; su questa Parola Davide poggia e costruisce la propria fede.
Sempre in Genesi si legge che Dio piantò un giardino in Eden e pose «là» (שמ sham) l’uomo. Ancora, «là» (שם sham) Abrahamo offrì, secondo le indicazioni di Dio, il suo unico figlio. C’è dunque un luogo che contiene la realtà del Nome (שם shem) di Dio: esiste un luogo, o un «là» (שם sham) in cui il Nome (שם shem) di Dio si rivela.
Intuiamo, così, che tutta l’opera di Dio ha come fine la sua rivelazione. All’uomo spetta il compito di cercare questo “spazio” (שם sham), in cui il Nome (שם shem) si manifesta. Ora, come si è visto, questo spazio שם) sham), è stato creato da Dio mediante la separazione delle acque.
Gesù è venuto, è entrato nella “distesa” (tra le acque) del tempo, per far conoscere il Nome שם) shem) del Padre, affinché questo Nome fosse santificato. L’apostolo Paolo dice che in lui, in Cristo, sussistono tutte le cose (Col 1,17), ossia l’intera creazione; egli ha, infatti, in sé racchiuso tutto il “là” della distesa “tra le acque” e lo ha portato “là” dove Abrahamo ha legato Isacco, affinché quel “luogo” fosse santificato. Il Nome שם) - shem) di Dio è rivelato, dunque, in quel “là” שם) sham), o luogo, o corpo, dove tutto è stato compiuto e santificato.
La parola “santo” in ebraico si scrive קדוש (qadòsh). La radice קד (qd) simboleggia «una linea di demarcazione, una fessura, un’incisione; in particolare, designa la taglia, la giusta proporzione del corpo» (Fabre d’Olivet 1816 p. 338), in altri termini, la perfetta statura dell’uomo. Inoltre, raffigura «il punto verticale, il polo, la sommità di qualcosa, il perno, il punto verso cui tutto è condotto» (Ibidem). L’intero spazio, il “là”, il luogo della pienezza della Deità è stato, dunque, racchiuso corporalmente nell’uomo Gesù (Col 2,9). Gesù rivela il Nome שם) shem) nel “là” שם) shem) del suo spazio corporeo.
La croce ha toccato il punto più lontano della separazione tra le acque di sopra e le acque di sotto. Segna l’omega della vecchia creazione e l’alfa della nuova, il compimento e il principio. Quando tra la lettera ד (dalet) e la lettera ק (qof) di קדוש (qadòsh), compare la lettera ו (vav), il cui ideogramma nella scrittura geroglifica egiziana è un “gancio”, o “chiodo”, ecco che il derivato קוד (qod) indica l’azione di chi reclina la testa (Fabre d’Olivet 1816). La parola שם (shem), che identifica il “Nome” di Dio, si esprime dunque mediante il luogo (שם sham), ossia il corpo di Cristo. Questo luogo è stato lacerato e le acque di sopra hanno potuto irrompere sulla terra.
La lettera מ (mem), infatti, che in fin di parola cambia la grafia in ם, simboleggia le acque: un’onda è il suo ideogramma egiziano. Se questa lettera è aggiunta alla parola שם (là o nome), forma la radice verbale שמם (shamem), che indica «tutto ciò che esce dalla propria sfera, divenendo follia» (Ibidem). Il verbo שמם (shamem), riferito ad un luogo, indica lo stato di desolazione; riferito ad un uomo, indica uno stato di abbandono e di follia, cioè descrive la condizione di chi è stato totalmente svuotato. Ora “là” (שם sham), ossia sulla croce, la quale per i Giudei è scandalo e per le genti è follia (1Cor 1,18), uno squarcio si è prodotto: da tale apertura è uscito, pari ad un’onda, sangue ed acqua, producendo una condizione di abbandono, di follia e di svuotamento. Il luogo della distesa, chiamata cieli ossia “tra le acque”, è stato lacerato, come una cortina, dall’alto in basso e le acque di sopra si sono ricongiunte alle acque di sotto, risanandole.
Anche quando andrò nella valle dell’oscurità profonda, non avrò paura del male, poiché Tu (sarai) con me. La tua verga e il tuo bastone mi daranno conforto
Davide è giunto alla scoperta di un Dio personale e, quindi, di un rapporto pieno di significato. Un legame vincola i due, e la qualità di tale legame è nel nome stesso di Davide, che vuol dire “Amato”. Davide sapeva di Dio, ma ora sa di essere un oggetto di cure. Le lettere che compongono il nome Davide [דוד] raffigurano una vav [ו], segno dell’uomo, tra due dalet [דד], che lette “dad”, traducono la parola “mammella”. Davide è il bimbo divezzato che si acquieta tra le mammelle della madre (Sal 131,2). Rappacificato con Dio, può infine liberare il suo sguardo fino a contemplare, nei remoti recessi dell’eternità, un grandioso progetto. I verbi al futuro non riguardano soltanto una realtà a venire, ma indicano un cammino da compiere, un itinerario di salvezza da percorrere. Davide sapeva in Chi aveva creduto (2Tim 1,12), ora sa anche quale sia la sua posizione nei confronti di Dio: egli è la pecora ritrovata e portata sulle spalle (Lc 15, 4-6).
Davide, nello smarrimento, ha preso consapevolezza del suo essere nello scenario della creazione, e da tale grandiosa realtà gli giunge un sapere di «cose che non sono mai salite in cuor d’uomo» (1Cor 2,9): lui vive, si muove ed è (At 17,28) in vista di un Lui (Col 1,16), nel quale tutte le cose sono e tutte ritrovano il loro “principio”, ossia una causa, una ragione, un significato. Davide, per un attimo contempla in Lui, quale pupilla dell’occhio di Dio (Zac 2,8), la pienezza di un disegno che ha l’eternità per cornice.
Dolore, sofferenze e morte impallidiscono di fronte alla conoscenza di Lui, e Davide è pronto a lanciare la sua sfida al re delle ombre e al soggiorno dei morti.
Nella vita di ogni credente c’è un momento in cui Satana ottiene da Dio il consenso di poter vagliare l’uomo di fede, come si vaglia il grano (Lc 22,31). Cos’è dunque questa valle dell’oscurità profonda? Per l’ebreo potrebbe rappresentare l’esilio, ma per noi cristiani, che già viviamo nell’esilio, lontani dalla nostra patria celeste, cosa rappresenta? La valle, in quanto strettoia, indica il tempo dell’angoscia, in cui il dubbio riacquista, alla luce delle prove, tutte le sue ombre. La presenza della morte si fa opprimente e irrompe come un invasore, che vota allo sterminio tutti i luoghi santi del cuore e tutte le immagini più care del nostro Dio, finché non resta il vuoto del silenzio.
Davide, giovane di fede, lancia dunque la sua sfida ad un cielo affollato di stelle, reclama la sua notte più nera, esprime la baldanza del suo animo, protesta il suo amore per tutte le cose che sono e che saranno. Sappiamo dalle Scritture che la sua sfida è stata accolta, ed egli conoscerà questa notte dello Spirito: allora si piegherà sotto la verga (patibulum) del suo Signore, e si appoggerà al bastone (palus) del suo Dio. Dalle profondità del suo peccato di inganno e di tradimento, egli griderà e troverà salvezza nel Buon Pastore crocifisso ad una verga sospesa su un bastone.
Dio crea l’uomo verso la fine del sesto giorno, vale a dire a metà pomeriggio: l’uomo è l’unica creatura ad avere un tempo tanto breve nel giorno della creazione, tre ore appena prima del tramonto. Idealmente anche l’uomo nuovo è generato alla fine del giorno. Noi siamo nati, infatti, nell’ora in cui il nostro secondo Adamo si è addormentato sulla croce. Ci restano, così, tre ore di luce per contemplare Colui che ci ha generati: sono queste le ore del primo amore! Dio ci ha creati alla fine, non all’alba del sesto giorno, per mostrarci che non questo è il giorno riservato a noi: noi non siamo di questo giorno, ma un sabato ci è stato riservato (Eb 4). Il settimo è il giorno contemplato da Davide, giorno di ristoro e di giustizia, in cui nessun animale impuro entrerà, ma soltanto coloro il cui Dio è Pastore. «Io sono il buon pastore; il buon pastore dona la sua vita per le pecore» (Gv 10,11). Tuttavia, per entrare in quel giorno vi è una “notte” da superare. Davide sa che è una notte diversa da tutte le altre, è la notte in cui il Pastore è percosso (Mt 26,31), e i suoi sono consegnati all’angelo distruttore, perché ogni opera, ogni pensiero, ogni moto del loro animo sia purificato dal sangue dell’Agnello.
Il Pastore muore ed è seppellito dentro di noi, è l’ora in cui regna sovrano il silenzio del cielo, mentre, davanti alla tomba, i soldati dell’impero cantano i loro canti.
Dio disse «Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza» (Gen 1,26). L’uomo è creato a immagine di Dio, ma la somiglianza ad un modello non è un atto immediato, ma si realizza progressivamente mediante la visione del modello. Ora, Dio si fa incontro all’uomo, nella notte, in modo che l’uomo possa gradualmente scorgerlo e trasformarsi a sua somiglianza, fino al giorno in cui lo vedrà così come Egli è (1Gv 3,2).
Contro ogni speranza, ogni evidenza, ogni scienza è la fede abbandonata sulla croce: non ha volontà, né visione, né meta; lascia che tutto sia, e mai ritira il suo “amen”.
Durante la notte, «quel che era dal principio» non è più,
di «quel che si è udito» restano gusci di parole;
«quel che si è veduto» appare come la promessa di un sogno,
di «quel che si è desiderato» rimane quel che resta dopo un grande incendio;
«quel che si è toccato» si scioglie come neve sulla mano,
«della Parola della vita» più non gorgoglia la fonte.
Camminare senza udire, senza vedere, senza toccare, per giungere infine alla fede nel Dio «sconosciuto» (At 17,23), questa è il battesimo nel fuoco.
Quale esperienza ci riserva un simile cammino? L’esperienza di un incontro. Tuttavia, non incontreremo Dio, né angeli, né demoni, ma incontreremo uno dal volto sfigurato dal male, e dalle carni piagate dalla lebbra. Davide lo incontrò, quando Nathan gli disse: «Tu sei quell’uomo!» (2Sam 12,7). In Gesù crocifisso, il Figlio è per un attimo abbandonato, affinché ogni uomo possa riconoscersi. Contemplare Dio che muore per amore costituisce soltanto una faccia dell’unica medaglia, l’altra faccia è la nostra.
Tu imbandirai davanti a me una tavola, di fronte ai miei nemici
Superata la valle dell’ombra di morte, non più prati d’erba, non più acque tranquille, ma una tavola imbandita. Il cammino si è concluso, non un Pastore trova Davide, ma un Padre che imbandisce un convito. Ci troviamo davanti ad una delle più belle immagini di Dio di tutta la Bibbia: un Dio che attende, indaffarato nel preparare con le proprie mani un banchetto, pronto ad accogliere e a far festa. Vi è attesa in questa scena e l’ansia di un incontro che colmerà di gioia tutta l’eternità.
«Tu imbandirai», quale confidenza e quale intimità ha realizzato Davide con il suo Dio! Una tale visione anticipa immagini neotestamentarie, uno spettacolo di festa nel quale Dio riempie, con il suo primo piano, l’intero palcoscenico. È un’anticipazione della scena finale del racconto biblico, in cui contempleremo tutti i protagonisti: un Dio in festa, un Amato vincitore, l’immagine di una sposa, e sullo sfondo gli avversari, i segugi del Dragone.
La fede di Dio ha dunque vinto; in Gesù, Dio e uomo si sono alleati e hanno trionfato sui nemici. Nell’ombra di morte, muore Dio secondo l’uomo, e nasce l’uomo secondo Dio.
Ungesti con olio il mio capo
Samuele aveva unto il capo di Davide, consacrandolo re d’Israele (1Sam 16,13). L’unzione significa elezione, e Dio elegge, a preferenza dei fratelli, l’insignificante Davide. La gloria di Dio non passa mai lungo strade lastricate, ma attraverso i seminati (Mt 12,1). Davide, a differenza dei fratelli, amava le pecore del suo “piccolo gregge”: lo difendeva dai leoni del deserto, ed era pronto a dare la propria vita. In virtù di questo amore, Dio gli ha affidato il governo di tutte le pecore di Israele.
«Il mio capo» (ראשי roshì) dice Davide; questa parola contiene le lettere che formano la parola “fuoco” (אש esh). Un pensiero, dunque, brucia nella mente dell’uomo; quando la “visione” dell’uomo, simboleggiata dalla lettera ר (r), è rimossa, allora la mente può concepire אשי (’isheì), vale a dire «l’offerta fatta mediante il fuoco»; soprattutto, può concepire la Parola di Dio, ossia la י (yod), che parla in mezzo al fuoco (אש), e parla mediante l’uomo (איש – ’iysh). «Ecce homo!» esclamerà il rappresentante del principe di questo mondo a tutti i popoli di tutte le generazioni. In Davide, Dio elegge l’uomo secondo il suo cuore, quale primizia di offerta di odor soave fatta mediante il fuoco.
Gesù, il figlio di Giuseppe e di Maria, è il Pastore che dà la sua vita per le pecore, e, come un agnello, è consumato dal fuoco della giustizia di Dio [giustizia di Dio da intendere in modo retto come misericordia ndr].
...il mio calice trabocca
Il calice è simbolo del corpo di Gesù, dal quale traboccò sangue ed acqua. Egli è la coppa, il calice della benedizione, sollevato dal Padre di fronte a tutti i suoi nemici.
Certo, bene e bontà mi correranno dietro, tutti i giorni della mia vita
«Certo», è un’esclamazione di fede: «certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono» (Eb 11,1).
Scomparsa la morte, restano i giorni della vita, illuminati da due nuovi luminari: il bene per presiedere la gioia, e la bontà per presiedere la pace.
Negli spazi dell’eternità, Davide immagina se stesso nell’atto di correre: ha conosciuta la Verità dell’amore di Dio, e la libertà lo ha strappato a tutti i vincoli della paura. Non corre via dal male, corre verso una meta; corre perché è arrivato, corre per abreagire uno smisurato peso eterno di felicità, corre «simile ad uno sposo, quando esce dalla sua camera nuziale» (Sal 19,5).
e io abiterò alla Casa di [יהוה] per la lunghezza dei giorni
L’uomo per vivere ha bisogno di un luogo in cui abitare e di un tempo per esistere. Davide esprime così la sua fede in una patria capace di appagare il suo desiderio di eternità. La nostra dimora è la Casa di Dio ma Dio non abita negli spazi del cielo, o in templi fatti da mano d’uomo. Dio si è formato un corpo con un cuore di carne: per l’eternità, a noi figli di questa creazione, è dato di vivere la Verità del Figlio e la Libertà dello Spirito nell’Amore della Sposa, nella Casa del Padre.
Il tuo Nome, Signore,
è fremito di alba
sull’impallidir del mare,
velo d’aurora
tra rovi di stelle impigliato,
luce di sciabola
nel gemere della notte.
Ineffabile è il tuo Nome, Signore,
è canto di voce amara,
folata di vento ebbra d’aromi,
sguardo rinchiuso nei ceppi del cuore.
Il tuo Nome, Signore,
è nel salto di una sorgente,
tra pietre di torrente,
nella sete di un fiore reciso,
nel sapore di un bacio dissetato.
Ineffabile è il tuo Nome, Signore,
foglia che cade al calar del vento,
pietra deposta su una tomba amica,
vita di un amore che morendo ama.
Salmo di David
1 Ineffabile è il mio Amore,
non sono vacillante.
2 Su erbe di prati mi distende;
su acque trasparenti mi conduce.
3 L’anima mia inebria;
mi guida per gioiosi sentieri,
perché Amore è il suo Nome.
4 Se pure andassi nella valle delle gelide ombre,
non avrei paura alcuna, poiché Tu sei con me.
La tua destra e la tua parola,
sono la mia forza.
5 Un convito di baci e carezze hai imbandito al cospetto di chi mi odia,
risplende di gioia il mio volto,
il mio cuore è sazio di bere.
6 Bene e bontà hai disposto intorno a me,
tutti i giorni della mia vita,
finché non dimorerò nella tua casa di stelle
sempre e sempre.
...
Bibliografia
Fabre d’Olivet (1816) La langue hébraïque, Paris
(liberamente tratto dal sito: Note di pastorale giovanile)