Al cuore della nostra fede c’è il mistero dell’incarnazione di Dio
Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, il quale è nato, ha vissuto, è morto quale umana creatura nella storia e in mezzo all’umanità. Tuttavia, questa fede che noi confessiamo non sempre ci appare in tutte le sue conseguenze: ripetiamo che Dio si è fatto uomo, ma poi non approfondiamo, non osiamo dare alla carne di Gesù il peso che merita, la realtà che essa è in un corpo umano.
Innanzitutto, dire che Dio si è incarnato significa dire che non si è fatto uomo in generale, non ha semplicemente unito la natura umana alla sua qualità di Figlio di Dio, ma che è diventato un uomo “singolare”, preciso. E questo è avvenuto nascendo da Maria di Nazareth – “nato da donna”, scrive san Paolo (Gal 4,4) – ma cresciuto nel mondo a poco a poco, costruendosi in una persona plasmata dalla famiglia natale, dalle esperienze vissute, dalle contraddizioni affrontate, dal bene e dal male che ha dovuto riconoscere nel mondo e tra gli esseri umani. Dovremmo dire non solo che Dio si è incarnato, ma Dio si è umanizzato! Non facciamo letture cariche di supposizioni o di ipotesi psicologiche – tanto praticate oggi, ma svianti e sovente insensate – atteniamoci invece ai vangeli.
La venuta del Figlio di Dio che rinunciava al privilegio della sua condizione di Dio, spogliandosi degli attributi divini, non poteva avvenire se non in una famiglia credente e povera tra quelli che erano glianawim, i “curvati”, i poveri che aspettavano la salvezza solo da Dio. E sua madre, Maria, e suo padre secondo la legge, Giuseppe, accolgono Gesù e lo mettono al mondo dandogli quell’amore e quella fiducia indispensabili a un bambino per crescere.
Anche nel rapporto filiale con Maria e Giuseppe, Gesù ha vissuto fatiche, difficoltà, contraddizioni… Certo, Maria era una donna che viveva dell’obbedienza alla parola di Dio, e Giuseppe è detto “uomo giusto”, dunque erano dei buoni genitori, ma questo non risparmia a Gesù le difficoltà quotidiane che si incontrano crescendo in una famiglia umana. In questo modo Gesù si umanizza come ogni essere umano e la sua personalità viene plasmata dalle relazioni con quei precisi parenti (“fratelli e sorelle di Gesù”), in quel preciso villaggio di Nazareth, con quanti frequentavano la sua famiglia e l’officina del carpentiere Giuseppe. Così è cresciuto umanizzandosi, imparando a “diventare un uomo”, a plasmare la sua personalità con il bagaglio ricevuto (la natura) e la storia in cui era immesso (la cultura). Dio, suo Padre, ha saputo rispettare la crescita autonoma di Gesù, senza mai fargli mancare l’ispirazione, la grazia, la fedeltà. La Lettera agli Ebrei lo dice con chiarezza: “Gesù imparò attraverso le sofferenze patite l’obbedienza filiale” (Ebr 5,8).
Purtroppo in molti cristiani questa immagine di Gesù veramente umano, umanissimo, è assente perché la sua qualità di Dio pare potersi affermare solo a scapito della sua qualità umana. L’umanizzazione di Dio ci scandalizza, e d’altronde questa è una verità solo cristiana, aborrita dai monoteismi, sia quello giudaico che quello dell’islam. Resta la verità dei vangeli: Gesù non è stato uomo per finta, non era solo simile a noi, era “della nostra stessa pasta”, come dicevano i primi padri della chiesa. E se i vangeli non ci parlano di Gesù nella crescita e nella giovinezza è perché non c’era nulla da dire, essendo la sua vita così ordinaria e quotidiana. Tuttavia non si finisca per pensare che questa umanissima condizione di Gesù gli impedisse di ascoltare Dio in un modo personalissimo, unico, come unica era la sua venuta nel mondo: unica ma sempre umanissima. “Cresceva in sapienza, in taglia e in grazia presso Dio e presso gli uomini” (Lc 2,52) e quindi sapeva afferrare nella sua esistenza umana ciò che Dio Padre voleva da lui, anche quando Giuseppe e Maria non lo capivano.
(Jesus - Rubrica La bisaccia del mendicante - Dicembre 2015 di ENZO BIANCHI)