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Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui,
porta molto frutto,
perché senza di me
non potete far nulla
(Giovanni 15,5)

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         Lectio della teologa Stella Morra 

“… per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (Ap 12,14b)
Il segno della donna nell’avvento del Regno.

Il testo è bellissimo. Il cap. 12 dell’Apocalissn è un testo particolare. L’Apocalisse è un libro molto strano, gode di pessima fama: si dice che sia complicato, simbolico, quindi il novanta per cento dei credenti non l’ha mai letto. In un certo senso è difficile davvero, ma lo è perché non è un libro narrativo, non racconta una storia. In realtà chiunque si sia occupato di “adventure”, capisce benissimo l’Apocalisse, perché ha la struttura di un’avventura, con un obiettivo, con tutte le vicende che avvengono per raggiungere quell’obiettivo, più o meno imprevedibili, strampalate, inaspettate, e alla fine capisci che avevi tutti gli elementi per poterle affrontare. Non viene in mente nulla che uno possa fare di fronte ad un dragone con sette teste - sembra una favola - e allora ti chiedi che cosa vorrà dire. E’ sbagliato leggere la Bibbia in questo modo, sia il Vangelo che l’Apocalisse.
La domanda da fare alla Bibbia non è “che cosa devo fare?”, e nemmeno “quale storia mi racconta?” La domanda è sempre “quale scenario interiore questo testo mi sta raccontando?, che cosa mi sta dicendo di come io sono dentro, di come è il mondo che mi sta intorno e quali sono i criteri per campare in un modo un po’ meno triste, un po’ più umano e un po’ più contento di quello in cui normalmente campo. Ovviamente questo si può dire con contenuti diretti (il mondo è così… tu sei così…), oppure con contenuti etici (se tutti quelli che hanno fame fossero saziati, il mondo sarebbe più allegro), oppure si può raccontare con il genere letterario dell’avventura e della fantascienza dove, in realtà, dietro la fantascienza c’è il quadro che è il disegno di Dio sulla storia.
In questo senso l’Apocalisse è difficile, ma per altri versi è semplice, perché è molto divertente, bisogna prendere il ritmo della storia, capire il genere letterario, entrare nel film, farsi prendere dal suo fascino per vedere ciò che racconta. La cosa difficile è che di fronte ad un testo scritto fatichiamo ad entrare nel film, perché di solito i film si vedono e non si leggono, mentre le cose scritte si leggono e, spesso, si fa fatica a vederle! Il vero problema dell’Apocalisse è entrare dentro questo film, farci portare dall’onda di queste immagini. Da questo punto di vista l’Apocalisse ha un andamento veramente filmico, un ritmo cinematografico: si parte da un caso concreto e da questa storia singola vengono fuori riflessioni sulla totalità delle storie.
Giovanni ha un problema che è anche nostro: lo traduco in termini più facilmente comprensibili per noi, parole che l’evangelista non avrebbe usato. Giovanni ci dice: il Signore Gesù è venuto, è morto, è risuscitato, noi siamo salvi. Restano alcuni problemi: perché non tutti hanno capito? Perché la Sinagoga, il mondo ebraico dal quale Gesù è venuto e che è stato la culla di tutta questa ‘storia’, è quello che ha capito meno? Come facciamo, noi che gli vogliamo bene, che li conosciamo, che siamo come loro, a separarci da questo pezzo di noi?
Gesù è venuto, morto, risuscitato. Perché alcuni non capiscono? Preso atto del fatto che alcuni non capiscono, qual è il finale del film? Noi cosa dobbiamo fare adesso? Queste sono le due domande dell’Apocalisse. Sono due domande estremamente moderne, profondamente nostre!
Faccio due premesse di ordine generale per capire la questione, il genere letterario, il ritmo: bisognerebbe leggere tutta l’Apocalisse di fila, vedere il film senza chiedersi cosa vuol dire quest’immagine, che cosa significa questo simbolo. Bunuel, che era un regista simbolista, seccato dalle domande dei critici sul significato dei diversi simboli, ebbe a dire che in una delle sue migliori opere, “La via lattea”, più di metà delle cose che sembravano dei simboli, non volevano dire niente! Erano state messe lì per far esercitare i critici ad interpretarli! Disse anche che stava raccogliendo tutti i significati che i critici trovavano per divertirsi e vedere che cosa avesse detto senza saperlo!
Rispetto all’Apocalisse noi siamo esattamente così: invece di sentire il suono ci chiediamo che cosa rappresentano le sette teste del drago e tutti gli altri particolari, e ci perdiamo il gusto, perché nel frattempo il film va avanti e noi non lo vediamo più.
Il lavoro da fare sarebbe leggere tutto il libro dal cap. 1 al 21, senza farci domande, chiudendo gli occhi e proiettando sulle palpebre quello che sentiamo e alla fine leggere il cap. 12 e fermarci su quello. Ora non lo possiamo fare, quindi sono costretta a due premesse in linguaggio concettuale - paradossalmente ragioniamo meglio con le idee che non con le immagini.
Due grandi temi sono decisivi per Giovanni: le due domande che dicevo prima, i due aspetti che lui sottolinea, l’obbedienza e la giustificazione. Sono i due temi sviluppati dalle lettere cattoliche, sono ciò che era già chiaro ai cristiani a cui Giovanni scriveva. Quando dice: Gesù è venuto, è morto, è risuscitato, vuol dire, nel modo in cui l’abbiamo capito e le domande partono da lì in poi. Dobbiamo cercare di capire questi due temi: l’obbedienza e la giustificazione. Ora cerco di farne un riassunto da cartoni animati, molto poco teologico ma, spero, chiaro.
L’obbedienza.
Il tema dell’obbedienza è lo stesso di San Paolo, quando dice: “Gesù fu obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil. 2,8). Di solito leggiamo l’obbedienza in questo senso: c’è un comando e uno che obbedisce; quando c’è un comando e qualcuno che non fa ciò che viene richiesto, parliamo infatti di disobbedienza. Questa è una lettura moralistica. Non funziona così! L’obbedienza fondamentale a cui siamo chiamati, è obbedienza alla pienezza dell’immagine di Dio che è in noi.
Gli ebrei hanno molto chiara tutta la storia della salvezza: secondo il racconto della Genesi, siamo stati creati con l’immagine di Dio dentro di noi, con il soffio dello Spirito e dunque siamo ‘fatti bene’! Ricordiamo che la grazia originaria viene prima del peccato originario. Poi, nel corso degli ultimi cinque secoli soprattutto, ci siamo concentrati sul tema del peccato e ci siamo persi per strada la consapevolezza che noi siamo fatti bene! Abbiamo dentro di noi un’immagine indelebile di Dio, tanto più se siamo battezzati nella morte e resurrezione di Cristo, se cioè abbiamo il “carattere” che non si può grattare via - non ci si può sbattezzare. I sacramenti che imprimono il carattere non sono annullabili.
Noi siamo fatti bene, abbiamo dentro di noi l’immagine di Dio impressa in modo indelebile, è noi,  non è una cosa che viene da fuori, un ordine, un regolamento, è noi. Questo lo sappiamo benissimo per via dei nostri desideri: dentro siamo di una taglia più grande rispetto al vestito che la nostra vita è. Abbiamo sempre una misura in più, abbiamo sempre in gola una nostalgia di cielo, siamo perennemente insoddisfatti e poche cose nella vita ci danno una soddisfazione radicale, piena, totale. E’ chiaro che si possono fare molte cose diverse di questa insoddisfazione radicale, come di tutto il resto nella vita. Si può farla diventare l’origine della propria acidità permanente, della diffidenza rispetto a tutto, come nel libro di Qoelet, si può diventare cinici. Oppure si può riconoscerla come il segno dell’immagine di Dio in noi e percorrere il proprio desiderio, tentando di esserne all’altezza.
Per dirlo in modo più teologico, tentare di essere, di diventare l’immagine di Dio che siamo. L’obbedienza è questo: l’obbedienza a sé. Non al sé che ci è disponibile, al sé psichico, al sé cosciente, a quello che io so di me, ma l’obbedienza alla ricerca della propria verità più profonda, al proprio desiderio più profondo, a continuare a generare la verità dell’immagine di Dio che siamo. Questo è il motivo per cui Dio ci ha creati, secondo Genesi.

 Questo fa la differenza tra essere credenti e non essere credenti: vivere organizzando la propria vita con una fiducia fondamentale - siamo fatti bene e abitiamo la nostra insoddisfazione come nostalgia di cielo - oppure essere pessimisti su noi stessi, giudicarci, avere degli scrupoli, abitare la nostra insoddisfazione come acidità.
Non si è credenti perché si va a messa e non credenti se non ci si va. Essere credenti non è un dato giuridico, significa stare dentro la propria dinamica di obbedienza all’immagine di Dio che è in noi, ed essere non credenti significa non scommettere mai sul fatto che dentro di noi ci sia una verità che possiamo diventare.
Quando Paolo dice: Gesù fu obbediente fino alla morte e alla morte di croce, dice che Gesù in pienezza, in modo assoluto, è diventato il Figlio che era. Per questo noi diciamo che in Gesù siamo fatti figli. Dio ci crea così e il Figlio divinizza il nostro percorso. Non solo Dio Padre ha messo dentro di noi la sua immagine: nell’incarnazione del figlio viene assunto tutto il tempo che serve per compiere tutto il percorso.
La giustificazione
Gesù ci giustifica con la sua morte. Pensate alle parole che abbiamo nelle orecchie: il riscatto, l’espiazione. Come se ci fosse un Dio che vuole sangue in pagamento dell’offesa e Gesù, l’unico giusto, Agnello sacrificale, viene sacrificato per pagare questo prezzo. Non funziona così! In origine Dio Padre pone la sua immagine in noi e nel mondo con la creazione: è come se fosse un puzzle. Ad un certo punto qualcuno dà un pugno al puzzle… I pezzi ci sono tutti, ma il disegno non si capisce più! Gesù è il coperchio della scatola, il modello del disegno! Fare un puzzle senza guardare il disegno è estremamente complicato, mentre se hai lì il disegno, trovi i pezzi con un po’ di fatica, ma è più facile!
La giustificazione sarebbe il puzzle che si ricostituisce; Gesù è la condizione di possibilità per cui questo caos diventa di nuovo il disegno originario che era. In questo senso Gesù è il giudizio di Dio sul mondo. Non nel senso di classificare buono - cattivo, giusto - sbagliato, ma è il criterio che ci fa vedere come dovrebbe essere il puzzle. Se tutti i pezzi fossero al contrario, guardando il disegno ci si renderebbe conto che non si capisce niente, che non era quello il risultato da ottenere. Tutti noi abbiamo la speranza che le violenze, le ingiustizie, la nostra fatica spesso delusa, ad un certo punto possano tornare al posto loro, che si possa vedere chi ha faticato e chi no, altrimenti… che fregatura!
Abbiamo il desiderio che i conti tornino! La giustificazione in Cristo è Dio che dice che in Gesù Cristo i conti tornano, ma con un trucco strepitoso: tornano per tutti. Noi abbiamo un modo di fare i conti per cui se tolgo da una parte, per avere sempre la stessa somma, devo aggiungere dall’altra: se uno vince, l’altro perde! Il mistero della giustificazione in Cristo è che tutti sommano, il disegno finale fa sì che i conti tornano per tutti in positivo, esattamente come ciascuno spererebbe per sé! Vorremmo che il nostro bene mostrasse la pienezza del suo risultato e che i nostri errori fossero un po’ aggiustati. In genere per gli altri ragioniamo al contrario: il loro bene è il minimo che dovevano fare, ma ci sarà un giorno in cui pagheranno la loro violenza, le cattiverie…! La giustificazione di Dio non funziona così: tutti i conti tornano per tutti, e non solo questo: io non mi sentirò offeso, sarò contento che il bene di tutti sia moltiplicato e che il male di tutti sia colmato. Scrivendo l’Apocalisse, Giovanni ha molto chiari questi due temi riguardo alla venuta del Signore Gesù: l’obbedienza e la giustificazione.
Si legge il testo di Apocalisse 12.
Non vi preoccupate dei singoli passaggi, per ora, sentite la musica, che è bellissima! Letto così, tutto insieme, ha un effetto cinematografico, ma con due o tre chiavi di lettura appropriate, si capisce in modo chiaro. Molti particolari ci sfuggono, forse, perché sono legati alla cultura di Giovanni, ma in fondo non sono così importanti. E’ come se in un film, invece di guardare le sequenze della storia, uno si fermasse a guardare la foggia delle giacche degli attori!
“Nel cielo apparve poi un segno grandioso: fino al cap. 11 Giovanni ha visioni; qui finiscono le visioni e cominciano i segni, e questo è il primo. Per Giovanni i segni sono il modo in cui Dio si prende cura della storia. Quando diciamo “questo è un segno” diciamo esattamente questo: c’è lo zampino di Dio, Dio non sta a guardare la storia per vedere se gli uomini ce la fanno o no, ma trucca, gioca barando, ci mette in questa battaglia che è la storia ma interviene, ci dà una spinta, un aiuto perché ce la possiamo fare, per essere certo che ce la facciamo. Il testo è famoso: forse non abbiamo mai letto l’Apocalisse, ma sicuramente abbiamo in mente l’immagine di questa donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi, sul capo una corona di dodici stelle. L’abbiamo in mente con un’aggiunta, tipica delle statue: schiaccia il serpente, che spesso è rappresentato come un drago. La rappresentazione popolare ed artistica che vediamo spesso nelle nostre chiese, ha preso questa immagine, l’ha applicata a Maria e ha collassato con la Parola di Genesi che dice “questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gen 3, 15). Ha fatto l’operazione che Giovanni voleva: ha messo insieme questo testo con Genesi e l’ha applicato a Maria.
La donna rappresentata qui in questa visione, è Maria? Io sono dura: in prima battuta vi dico no, non perché non lo sia, ma perché se pensiamo che la donna della visione sia la Madonna, ancora una volta pensiamo che questa situazione non abbia nulla a che vedere con noi, la battaglia l’ha già fatta Maria, fine della faccenda. Vedremo più avanti che la tradizione cristiana ha attribuito questa immagine a Maria per un motivo molto serio: Maria è, nella tradizione cristiana, la figura che anticipa ciò che succede a coloro che sono obbedienti alla sequela di Cristo. Maria è l’icona del cristiano e della Chiesa, è l’immagine di come diventa un cristiano obbediente alla sequela di Cristo. Non è Maria in quanto lei - è successo a lei duemila anni fa e a noi non succede più! E’ l’icona, l’immagine, l’esempio in senso tipologico della vita credente. Non è un privilegio di Maria, un fatto che riguarda lei, in cui noi non c’entriamo, perché non dovendo partorire Gesù non siamo minacciati dal drago! Se è vero quanto detto prima circa l’obbedienza, questo è il ritratto realistico della nostra esistenza: passiamo la vita a cercare di ‘partorire’ noi stessi, partorire il nostro figlio maschio, cioè la verità dell’immagine di Dio che è in noi. Passiamo la vita nelle doglie e nel travaglio del parto, cercando di partorire la nostra novità. E’ la storia tutta intera, non solo noi come singoli! La storia è tutto il tempo in cui si partorisce la nostra verità e questa fatica è contornata da dodici stelle e dalla luna sotto i piedi: tutto il cosmo, il maschile e il femminile, è intorno a questa fatica, esattamente come quando Paolo dice La creazione geme e soffre in attesa di…”.
Chi di noi, entrato nell’età giovanile e poi adulta, non ha mai provato la fatica di costruire un pezzo di sé nuovo e il morso di un dragone interno, di una parte di sé che voleva divorare questa novità?
Che si chiami paura, insicurezza, dubbio, incertezza… ognuno di noi ha dentro un dragone che combatte molto duramente ogni volta che tentiamo di ‘partorire’ qualcosa di nuovo, che ci fa venire tutti i dubbi di questo mondo, tutta l’ansia…
Normalmente viviamo un periodo terrificante e poi, quando facciamo l’ultimo sforzo, e la novità si vede, diventa un gesto reale qualsiasi, piccolo o grande, ci meravigliamo di aver faticato tanto per un risultato che appare così semplice! C’è una parte di noi che è un drago rosso. Per me è diventato molto consolatorio, quando mi prende l’ansia, o la paura, fermarmi un attimo e dire: “Buon giorno signor drago rosso, come stai?” E’ una chiave di lettura che va al di là del discorso spirituale, un’immagine che aiuta molto, se cominci ad applicarla. Quando ti prende l’ansia, se immagini il drago rosso come Grisou dei fumetti, improvvisamente non è più una cosa seria, è un piccolo draghetto che sputa un po’ di fiamme, ma che non deve essere preso troppo sul serio!
Ciò che siamo chiamati a partorire è il nostro figlio maschio: nella cultura patriarcale il figlio maschio non è un figlio qualsiasi, è il primogenito, il figlio di Dio. Siamo noi come figli di Dio, come quell’immagine che è stata posta in noi nella creazione! La storia tutta intera figlia di Dio! Per un lettore ebreo questa interpretazione era molto chiara: in tutto l’Antico Testamento Dio è la parte maschile, e Israele, il suo popolo, è sempre la terra, la donna, la figura femminile. A noi viene subito in mente Maria, ma è molto chiaro che l’immagine è lo sposalizio di Dio con la storia. Questa donna nel cielo è ciò che Dio si è scelto: noi! Tutto questo, per adesso, si svolge in cielo, poi appare il drago che con la coda trascina giù un terzo delle stelle: non solo minaccia la donna e suo figlio, ma scombina l’equilibrio di tutto il cosmo che stava intorno alla testa della donna e sotto i suoi piedi a reggerla in questa fatica. Tutto ciò che è esterno a noi, secondo il disegno di Dio, ci regge la testa e i piedi come tiene su e tiene appesa la donna dell’immagine: l’esterno è fatto per aiutarci nella nostra fatica. Arriva questo dragaccio e butta giù un terzo delle stelle, scombina l’equilibrio e l’esterno ci diventa nemico, la differenza ci diventa conflittuale!
Cielo… “Il figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono”. La donna partorisce, ce la fa nel travaglio del parto, ma il figlio non è ancora disponibile, non diventa storia, non va con lei sulla terra, viene conservato da Dio. Anche questa è una bella immagine consolatoria: quando ci prende l’ansia, pensare che, come dice Paolo, la nostra vita è nascosta in Dio!
Tutta la fatica che stiamo facendo per partorire il nuovo dentro di noi è già conservata da Dio al riparo da qualsiasi cosa, non può andare perduta. Possiamo non averla disponibile, confonderci un po’, impiegare un po’ di tempo a trovarla, possiamo fare un po’ di fatica, ma questo parto in cielo è già avvenuto e Dio conserva la nostra piccola novità.
E la donna fugge nel deserto. Qui c’è il gioco tra cielo e terra. Nell’Apocalisse è molto chiaro che il cielo è il film di Dio, la terra è il tempo della storia: nel cielo si vedono le cose come Dio le ha pensate, sulla terra si vede quello che noi vediamo. C’è questo film, il segno, l’intervento di Dio: l’umanità retta da tutto l’esterno partorisce la propria novità, che è custodita da Dio e non può andare perduta, ma c’è un drago che confonde l’esterno e minaccia la novità, minaccia la donna. Il demonio si arrabbia sempre contro tutte le nostre opere di bene! Dà colpi di coda terrificanti perché è molto impaurito dalla possibilità che l’umanità riesca a partorire la propria novità secondo Dio.
La donna fugge nel deserto. Per gli ascoltatori ebraici, il deserto è un’immagine molto chiara: è il luogo dell’ambiguità, del grande bene e del grande male, del fidanzamento con Dio, della salvezza già sperimentata, del passaggio del Mar Rosso avvenuto, ma anche del dubbio, della paura, dell’idolatria… Il deserto è il tempo pericoloso e ambivalente ed è quello che si vede. Che cosa vediamo noi? La grande ambivalenza della storia! Momenti, luoghi, tempi di grande tenerezza, di grande lucidità, di grande intuizione, di un desiderio riconosciuto, di un Dio quasi visto, sperimentato, e nello stesso tempo tempi di grande oscurità, di dubbi, di idolatria, di confusione, di paura.
Questo è ciò che accade sulla terra, ciò che si vede. Ma è bellissimo, in questa terra, perché Dio ha preparato un rifugio per la donna; è come nel racconto di Genesi, in cui l’uomo si vergogna di essere nudo, e il capitolo si conclude dicendo che “il Signore fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gen 3,21). Dio custodisce tutto il nuovo, ha già un disegno bellissimo, ma quando la donna è nel deserto, è nel pieno dell’ambiguità, non sa bene che cosa le succederà, Dio le prepara, anche nel deserto, un rifugio! Abbiamo il nuovo, custodito presso Dio, abbiamo la fatica e il travaglio del parto, ma abbiamo la certezza che da qualche parte, anche nella storia, che pure resta ambigua, c’è un rifugio!
Torniamo al cielo. La donna ha partorito, il figlio è stato rapito verso il trono di Dio, “scoppiò quindi una guerra nel cielo”. Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago! Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi nel cielo. Il finale è chiaro: nel disegno di Dio la guerra c’è, ma “non prevalsero e non ci fu più posto” per questo male. La guerra c’è e noi lo capiamo bene, ma l’esito è chiaro: non c’è più posto!
… e terra.
Ma c’è una bella fregatura: “Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra….” Ciò che è chiaro nel cielo fa sì che sulla terra si trovino la donna e il serpente. La grande battaglia si combatte sulla terra. Detto in termini moderni, la storia ci è data per avere il tempo di conoscere e partorire le nostre novità e di combattere anche noi la nostra battaglia insieme agli angeli, di metterci dalla parte giusta nella battaglia. Dato che ogni tanto ci confondiamo, Dio prolunga la battaglia, sempre con la garanzia che il nuovo è già custodito in Dio, che gli angeli hanno già sconfitto il demonio. Non c’è possibilità di perdere, ma Dio dà un paio di altre vite per fare durare di più il videogioco, perché finalmente capiamo da che parte ci dobbiamo mettere, perché se poi finisce che ti trovi dalla parte di quelli che hanno perso, è una fregatura; allora prolunga il gioco perché tu, a forza di gironzolare, partorisca il tuo nuovo e ti metta dalla parte di Michele e dei suoi angeli. Quando sei lì, stop, finito.
Allora si ode in cielo il grande inno della vittoria: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte.”
Non c’è più accusa, l’accusa è il demonio! “Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio; perché hanno disprezzato la vita fino a morire”.
Il richiamo qui è all’obbedienza di Cristo fino alla morte. Bisogna prendere sul serio ciò che ci dice l’inno di vittoria: ci sono carte truccate, c’è la garanzia della vittoria, ma la nostra storia personale, la storia di tutta l’umanità è una cosa seria, bisogna decidere da che parte mettersi, non è tutto uguale e non si possono trovare delle scuse. La questione è quale obbedienza al tuo profondo desiderio riesci a mettere in gioco e quale capacità di partorire la verità tua e di tutta la storia, perché questa è la testimonianza del martirio. “Esultate, dunque, o cieli, e voi che abitate in essi. Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo”.
C’è questa vittoria gigantesca, ma non soddisfacente, funziona esattamente come la storia. All’inizio parlavo dell’insoddisfazione radicale, perché tutto ciò che si deve compiere….
Ecco poi i versetti seguenti: “Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine ed inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca”.
E’ chiaro che siamo partiti da Genesi e che questa è tutta la storia di Israele, le due ali di aquila che portano la donna sono la legge e i profeti. La storia ha bisogno di essere rinforzata! Dio ha creato, ma deve star dietro a questa creazione, e allora c’è il dono della legge e dei profeti per essere condotta al rifugio. E’ l’immagine dell’Esodo al contrario, il passaggio del Mar Rosso: il mare che si apre e passano all’asciutto; qui c’è un serpente che vomita acqua che può travolgere, la terra si apre e inghiotte l’acqua. La donna sta sempre all’asciutto! L’esito è sempre lo stesso!
L’augurio pasquale degli ebrei aschenaziti dice: “nel giorno di Pesah anche quest’anno passeremo all’asciutto”, è molto bello! Che si tratti di uscire dalla schiavitù, o che si tratti di sfuggire al drago che minaccia la nostra novità!
Giovanni ci offre tutta la storia di Israele. Il disegno di Dio era uno, la battaglia si è spostata sulla terra, perché Dio riconosce la soggettività della storia, perché la storia è una cosa seria, perché noi abbiamo da prendere parte a questa battaglia, e bisogna dare una mano a questa storia, barare un po’; le ali di aquila, legge e profeti, ci conducono al rifugio e la terra si apre per farci passare all’asciutto anche quest’anno e il drago si incavola moltissimo.
“Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.” Tutti abbiamo nelle orecchie quel versetto che si legge nella lettura di compieta: Vigilate, perché “il diavolo come leone ruggente si aggira cercando chi divorare”.
E si fermò sulla spiaggia del mare. Per gli israeliti è la fine del mondo, le colonne d’Ercole. Gira dappertutto, fin dove c’è qualcosa lui arriva, non c’è nessun luogo sicuro!
Conclusione. Questa visione mi pare ci dica sostanzialmente due cose: la storia ci è data per avere il tempo di decidere da che parte ci mettiamo, e, come ha sempre insegnato la tradizione, per esempio nella liturgia funebre, noi chiediamo che i santi e gli angeli accolgano in paradiso. Si tratta di mettersi dalla parte delle schiere angeliche, che sono quelle che vincono; partorirsi all’obbedienza come figli di Dio nell’ambiguità della storia. Questo vuol dire mettersi dalla parte delle schiere angeliche! Generare in sé continuamente la novità dell’essere figli di Dio in mezzo all’ambiguità, al deserto della storia, come singoli e come mondo. Non c’è uno stato del mondo che sia fuori del deserto, secondo questa visione di Giovanni. C’è un rifugio, e forse il trucco per riuscire ad abitare la propria storia così è avere coraggio, fiato a sufficienza per comprendere dov’è questo rifugio a cui le due ali di aquila, la legge e i profeti, ci conducono.
Questo rifugio è costruito perché siamo nutriti, non a caso nella parte finale dell’Apocalisse, cap. 20, 21 si dice che quando il Signore torna, dice: “Sto alla porta e busso! Se viene qualcuno che mi apre io entrerò e mangeremo insieme”. C’è questo tema dell’essere nutriti, dell’avere forza per questa battaglia che la storia è. Quindi potremmo scoprire con realismo che il grande rifugio è l’Eucarestia, luogo di nutrimento, e dovremmo cominciare a chiederci seriamente che cos’è l’Eucarestia, cominciare a chiedercelo partendo da qui, non come ce lo siamo chiesto in seconda elementare, o a quindici anni, nei momenti di rifiuto…. Bisogna chiedersi che cos’è l’Eucarestia come grande rifugio nella situazione agonica della storia, in questa grande battaglia che si combatte in terra e non più in cielo.
(tratta da: www.festivalbiblico.it - Testo non rivisto dalla relatrice)