Discorso sulla Parola di Dio
partendo dal testo:
“Noi parliamo con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in modo spirituale” (1 lettera ai Corinzi 2,13) (Liberamente tratto dalla relazione di Mons. Gianfranco Ravasi alla 35° Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito a Rimini).
Nell’originale greco il versetto è composto soltanto da una
decina di parole. Eppure queste parole racchiudono tanti temi, tante allusioni, tanti ammiccamenti, tante vocazioni, tanti approfondimenti: studieremo le parole perché la parola di Dio si esprime in parole. Un grande testimone della spiritualità delle origini dei primi secoli cristiani, Massimo il Confessore diceva: “se non conosci le parole come puoi conoscere la Parola?”.
La tradizione rabbinica, in maniera molto suggestiva, contiene due espressioni:
- Da un lato afferma che le parole della Torah - ma non soltanto, di tutta la Bibbia - sono come pietre, bisogna che sprizzino luce, come accade con una pietra focaia.
- E ancora: ogni parola della Torah ha settanta volti, per indicare la ricchezza, l’iridescenza che la Parola di Dio ha.
Lo studio della Parola, perciò, è anche un atto di adorazione nei confronti della Parola “maiuscola” (il Verbo).
La parola italiana testo deriva dal latino textus ovvero “tessuto”. Da questo “tessuto” estrarrò quattro fili che sono i quattro punti cardinali del nostro percorso.
Farò riferimento al testo greco, non per un gusto filologico, ma perché vedremo che la traduzione, pur pregevole, che si usa anche nella Liturgia, non riesce a rendere la ricchezza del testo e anche dei suoi riferimenti, dei suoi rimandi. D’altronde sappiamo sempre che ogni traduzione, come diceva il grande Cervantes, è “il rovescio di un arazzo”. Se guardate l’arazzo di fronte lo vedete in tutto il suo splendore, nei suoi colori squillanti, nella linearità dei disegni delle scene, se lo guardate nella parte posteriore vedete i fili che cadono, vedete in maniera confusa che cosa rappresenta.
Quattro punti, quattro stelle polari, che illuminino il nostro cammino.
Il primo: Paolo comincia così nel versetto 13 del secondo capitolo: “Noi parliamo”. E usa un termine che nella cultura greca significava “chiacchiera”. Nel Nuovo Testamento questo verbo diventa il verbo della Rivelazione. Per questo è un parlare, proclamare. Il cristianesimo cerca di recuperare, di sanare la parola. Il premio Nobel della letteratura messicano Octavio Paz diceva che “il popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica”.
Il cristianesimoci salva dalla “chiacchiera” e ci presenta la Parola. E allora, tra le mille cose che possiamo dire, dobbiamo evocare questo tema sul quale bisognerà sempre scavare e approfondire. La Parola dovrà essere sempre il referente capitale della vostra esperienza spirituale.
Per intendere il “parlare di Dio” e il “nostro parlare” si usa lo stesso verbo perché noi trasmettiamo una parola che incide, che ferisce e che consola, che inquieta e che crea pace, una parola che artiglia le coscienze ma le sana anche come un balsamo. Nella Bibbia troviamo delle immagini antitetiche per parlare della Parola di Dio. La Parola di Dio è dolce come il miele ma è al tempo stesso simile, dice Geremia, ad “un martello che spacca la roccia”. È come l’acqua che feconda ma anche, dice la lettera agli Ebrei, ad “una spada che passa non soltanto la pelle, la carne, ma arriva fino al midollo”. Ritorniamo alla Parola anche perché la Parola è l’elemento fondamentale della Epifania di Dio. Guardate come comincia la Bibbia: comincia con una frase che è un evento sonoro, in ebraico è persino ritmato. È l’apparire di Dio sulla scena del mondo. “Dio disse: sia la luce. E la luce fu”.
E il Nuovo Testamento comincia alla stessa maniera, idealmente, con il prologo di Giovanni: “in principio c’era la Parola e per mezzo della Parola tutto è stato fatto di ciò che esiste”. La Parola, quindi. C’è un versetto, e concludo questo primo punto che vuole essere semplicemente un appello a purificare la nostra parola perché trasmetta la Parola. C’è un bellissimo versetto nel Deuteronomio, quando Mosè vuole riassumere con una sola frase tutta l’esperienza del Sinai, quel monte dal quale sono scese le Dieci parole, lampada per i passi nel cammino della nostra vita, il Decalogo: “Dio vi parlò in mezzo al fuoco, voce di parole, suono di parole, voi ascoltaste. Immagine alcuna voi non vedeste, solo una voce”.
Questo popolo povero ha questa intuizione altissima: Dio non è una statua. “Non avete visto nessuna immagine, tu non ti farai – dice il Decalogo – immagine alcuna di Dio, di ciò che è nel cielo, sulla terra o sotto terra”. Dio è la Parola. Questo è il paradosso, perché la parola è in assoluto la realtà più fragile. Le parole, anche quelle umane, hanno una potenza straordinaria. Ci sono dei fratelli e delle sorelle che si odiano per tutta la vita perché si son detti una parola cattiva una volta.
Ecco perché dobbiamo ritornare a celebrare la grande Parola di Dio e la nostra parola, perché purtroppo dobbiamo riconoscere che in principio c’era la parola ma la parola è stata tradita tante volte: sia la Parola di Dio, che si è offuscata (San Paolo parla di parola “adulterata”), sia la nostra parola che è caduta nella polvere della terra, che è diventata del colore stesso del fango.
Secondo punto: Paolo dice che noi abbiamo questa parola che non è espressa in discorsi di sapienza umana, con un’ espressione greca traducibile in “discorsi razionali”. Qui c’è un elemento che Paolo sviluppa soprattutto nel secondo capitolo: il rischio, in un mondo come quello greco molto sofisticato dal punto di vista culturale, di ridurre l’esperienza cristiana a un sistema di pensiero, di ridurre semplicemente la fede alla elaborazione di una serie di teoremi da dimostrare e da tenere come un tesoro prezioso.
Questa era la grande elaborazione filosofica greca: la scatola cranica dell’uomo diventava quasi come il grande universo, conteneva l’universo attraverso la capacità del suo pensiero. E non per nulla Paolo nel primo capitolo dice: il cristianesimo è agli occhi dei greci “stupidità”, “follia”. Il cristianesimo ha la croce di Cristo, che è un elemento estremamente sconcertante: nel mondo greco-romano era il supplizio più infame, la condanna a morte per i terroristi e per gli schiavi, gli ultimi della terra, come ricorderà Paolo. Quindi era un emblema sconcertante. Si dice spesso, da parte di alcuni, che fosse qualcosa di simile alla sedia elettrica che diventa l’emblema e il vessillo di questa religione. Ed ecco allora lo scandalo, la provocazione, la follia. Bisogna impedire alla nostra fede di essere soltanto il frutto di una razionalità. Non dobbiamo però dimenticare che l’uomo intero crede. E credendo ha anche questa grande via che Dio gli ha offerto, la via dell’intelligenza. Leggete per esempio quel capolavoro teologico che è la lettera di San Paolo ai Romani, dove l’apostolo fa della teologia, cioè teo-logia, logos di Dio, ragionamento, approfondimento.
Ricordate quella bella immagine che Giovanni Paolo II mette all’inizio dell’ enciclica, significativamente intitolata Fides et Ratio, Fede e Ragione: l’immagine delle due ali, l’ala della fede e l’ala della ragione per ascendere nel campo della trascendenza e del mistero. Ci sono alcune parole bellissime che vorrei ora citarvi, di un grande credente che era uno straordinario filosofo e uno straordinario scienziato, Pascal, il quale dice: “due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione”. Ecco i due estremi. E continua: “L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”.
Ecco allora il nostro itinerario: non fermarsi alla ragione ma dalla ragione andare oltre. E quell’oltre è rappresentato in maniera straordinaria, dall’esito finale del libro di Giobbe la cui vicenda trova il suo suggello nel celebre versetto (42,5): “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”.
La fede, che si nutre di ascolto, infine si apre alla visione, alla contemplazione.
Ecco allora il terzo punto dell’itinerario: Paolo dice che non è sufficiente il logos della sofia umana ma abbiamo bisogno di ciò che egli chiama le parole dello Spirito. Abbiamo bisogno cioè di una conoscenza trascendente, ulteriore, l’intelligenza illuminata dall’amore. Noi uomini e donne non abbiamo solo un canale di conoscenza: la scienza e la tecnica ci hanno sempre convinti che ciò che la tecnica produce e dichiara sia l’unica realtà dimostrabile, quindi vera. Tutte le altre sono considerate o come fantasie o come realtà fluide. In verità questo non è genuino: noi conosciamo attraverso tanti canali; si pensi ad esempio all’innamoramento.
Quando uno scienziato, uno studioso, ha passato un pomeriggio intero nel suo laboratorio studiando, successivamente si reca ad una festa e gli accade quello che è capitato a molti, l’innamoramento: scopre la donna di cui si innamora perdutamente. Da quel momento il suo sguardo, ormai, è anche uno sguardo estetico, poetico, sentimentale, affettivo e non è vero che questo sia marginale, secondario rispetto al primo: l’uomo ha tanti canali di conoscenza: il canale della poesia, dell’arte, della fede, dello Spirito, la via della mistica.
Ricordiamo qui due tra i tanti luoghi in cui lo Spirito fa il suo discorso. Primo: la creazione, il cosmo, la materia. “Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”. Così inizia il libro della Genesi. E il salmo 104 (103) riecheggia: “Mandi il tuo spirito, sono creati”. Le creature sono tenute insieme da questo respiro, vento e Spirito al tempo stesso. Gli arabi chiamano il vento che arriva dal deserto, il respiro di Dio. Dio respira sulla sua creazione e quindi la tiene in vita.
Ecco un appello: contemplare la natura.
Lo scrittore inglese Chesterton diceva giustamente: “il mondo perirà per mancanza di meraviglie”. Sono un numero sterminato le meraviglie del mondo. Il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non ha più lo stupore. Ecco perché dobbiamo ritrovare ancora la capacità di contemplare all’interno della natura, dell’essere, della materia, dei corpi – il cristianesimo è anche una religione corporale – il messaggio, il logos, che lo Spirito ci dà. Canta il salmo 19 (18): “i cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia al firmamento”.
È bellissimo anche il viaggio del sole, la sua orbita che viene considerata come una rivelazione. C’è un inno bellissimo della liturgia sinagogale ebraica di pentecoste, dello Spirito quindi, in cui si immagina che tra il cielo e la terra Dio abbia disteso una pergamena, che è il mondo, sulla quale ha scritto i suoi messaggi, e conclude dicendo che noi dobbiamo scrivere su questa pergamena il nostro alleluja, la nostra lode.
Il secondo luogo in cui lo Spirito si rivela è la storia. La religione ebraico cristiana è una religione storica. Non devi cercare Dio prima di tutto nella sua trascendenza: non è un imperatore impassibile; attraverso il Figlio suo che si fa carne, uomo come noi, parla un dialetto locale, appartiene ad una provincia sperduta dell’impero, Dio è nei crocevia delle nostre strade, della nostra storia. I dipinti di Chagall rappresentano bene questo spirito della Bibbia. Dio con il suo Spirito è presente nell’interno del villaggio, il villaggio da cui veniva, lo spettro ebraico. Gli angeli escono dai comignoli delle case dove si sta cucinando la cena; svoltato l’angolo trovi Dio e i profeti. Ed è per questo che allora è importante riconoscere lo Spirito all’interno della nostra esistenza.
Quando siamo venuti al mondo, abbiamo ricevuto questo respiro di vita dai nostri genitori che ci hanno generato. Questo respiro fisico è preziosissimo, è quello che ci permette di parlare, di vivere. In tutte le culture il simbolo è il respiro della vita, della vita fisica. Abbiamo poi ricevuto il battesimo, la cresima, e in quel momento un altro spirito, un altro respiro che è lo Spirito stesso di Dio.
La Chiesa tutta allora, è una raccolta di respiri dello Spirito.
Ecco l’ultimo punto cardinale: “esprimendo cose spirituali in modo spirituale”: non si tratta solo di esprimere, ma molto di più, giudicare, quindi saper scegliere, scegliere le cose dello Spirito con rigore; mettere insieme le cose, non disperdere; avere cioè una visione compiuta, custodire in pienezza, come si diceva di Maria che custodiva tutte queste cose, metteva insieme tutte le cose di cui era testimone e che in lei si compivano.
Nella stessa maniera dovremmo allora “mettere insieme in modo spirituale le cose spirituali”: comporre, comunicare, irradiare lo Spirito che è in noi. E questo è un significato suggestivo perché è il significato della testimonianza; è quella realtà che fa sì che irradiamo luce e calore in un mondo spesso gelido.
Nella cultura indiana si diceva che il martire profuma la spada del suo carnefice, come l’ascia che taglia il balsamo, resta profumata … al di là dell’apparente forza e indifferenza del male, lo Spirito riesce a penetrare in percorsi che sono indecifrabili.
Come lasciare spazio alla parola, a questa parola che incida all’interno della nostra esistenza, che incida ferite nei campi della consuetudine? Una poetessa ebrea diceva che l‘orecchio degli uomini è ostruito di ortiche che non permettono che questa parola incida ferite nei campi dell’abitudine, della superficialità.
Un teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, morto il 9 aprile del 1945, impiccato per ordine di Hitler ha lasciato un diario del suo carcere all’interno del quale c’è una sorta di invito, di lezione ad ascoltare, a vivere la parola di Dio. La Parola di Dio è avvolta da silenzio; il silenzio della parola è il silenzio bianco, non quello nero, senza parole, che non ha nessun senso.
Il silenzio della Parola invece è il silenzio bianco, riassunto di tutte le parole.
Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola perché i nostri pensieri siano già rivolti alla Parola, facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi; facciamo silenzio la mattina presto perché Dio deve avere la prima Parola; facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima Parola appartiene a Dio. Facciamo silenzio solo per amore della Parola.