La valenza universale della preghiera del rosario
(Enzo Bianchi)
Nella tradizione cristiana sono state molte e diverse le forme della preghiera con cui i credenti hanno voluto rinnovare e confermare la loro comunione con il Signore, ma è indubbio che tutta la preghiera cristiana ha un centro rappresentato dalla liturgia, culmine di tutta l’azione della Chiesa, fonte di tutta la sua forza (cf. SC 10), in cui è “fabricata ecclesia Christi” (Tommaso d’Aquino, Summa TheologicaIII, q. 64, a. 2). Perciò il cristiano è consapevole che la preghiera della Chiesa, costituita dalla liturgia eucaristica e dalla liturgia delle ore, plasma la sua vita di credente e gli fornisce il cibo quotidiano della Parola e dell’eucaristia (cf. Novo Millenio Ineunte 34), e questo, come ricordava Giovanni Paolo II, richiede che “l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nelle Sante Scritture la Parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza” (NMI 39).
Rispettato questo primato, il cristiano – proprio perché la preghiera liturgica sia prolungata fino a diventare preghiera incessante e si sviluppi e raffini l’arte del colloquio con Dio – può ricorrere ad altre forme di preghiera, tra le quali eccelle, all’interno della tradizione occidentale del II millennio, il rosario. Molti santi, infatti, hanno praticato la preghiera del rosario, trovando in essa uno strumento efficace per rinnovare la propria assiduità con il Signore. Tuttavia, Giovanni Paolo II lo ricorda con puntualità, come già aveva fatto Paolo VI, il rosario è un supporto alla liturgia e, ad essa e da essa ordinato, non potrà mai sostituirla poiché vuole essere innanzitutto una pedagogia alla preghiera personale (cf. Rosarium VIrginis Mariae 4).
Ma qual è la plurisecolare gestazione che ha avuto il rosario nella tradizione spirituale cristiana? L’intero libro dei Salmi si conclude con il versetto: “ogni respiro dia lode al Signore” (Sal 150,6). I rabbini amano interpretarlo come un invito alla pluralità delle forme di lode al Signore: ogni respiro, ogni soffio dei viventi esprima la lode al Signore! Nell’insegnamento sulla preghiera dato da Gesù ai suoi discepoli risuona anche l’esortazione a “pregare in ogni momento” (Lc 21,36), a “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1), e l’apostolo Paolo ripropone questa necessità ai cristiani delle comunità da lui fondate (cf. 1Ts 5,17; Ef 6,18). Indubbiamente queste esortazioni non chiedono di restare continuamente in un atteggiamento esteriore di preghiera, cosa che risulterebbe impossibile, bensì di dimorare in un’attitudine del cuore sempre disposta ad ascoltare il Signore e pronta a parlargli.
Proprio in funzione di questo, i padri del monachesimo si sono esercitati nella memoria Dei, nel ricordo di Dio, in modo da tendere a una disposizione permanente di preghiera, capace di rinnovare costantemente la comunione con Dio. San Basilio in particolare insisterà con forza su questa forma di preghiera: “Dobbiamo perseverare nel santo pensiero di Dio mediante un ricordo incessante e puro, impresso nelle nostre anime come sigillo indelebile” (Regole diffuse5,2). E ancora: “Dobbiamo restare incessantemente sospesi al ricordo di Dio come i bambini alle loro madri” (Ivi2,2). All’interno della vita monastica verrà progressivamente elaborato un cammino ascetico preciso in vista della preghiera continua: l’osservanza dei comandamenti, la lotta spirituale, la custodia del cuore e la vigilanza conducono il monaco a un’assiduità con Dio tale che diventa egli stesso, si può dire, preghiera vivente e continua. E per percorrere efficacemente questo cammino, i padri del deserto – in un’epoca in cui libri e codici erano rarissimi e altrettanto scarse le persone in grado di leggere – inizieranno a praticare la meléte, la meditazione o ruminazione di un versetto delle Sante Scritture imparato a memoria, o la ripetizione di un’invocazione al Signore. Preghiera semplice, certo, forse anche preghiera “povera”, ma tale da poter essere praticata in condizioni e momenti diversi della giornata: durante il lavoro manuale, in viaggio, nei momenti di sosta e di riposo… Invocazioni che chiedevano aiuto, imploravano misericordia, o che erano un grido di lode e ringraziamento al Signore. Fu praticata soprattutto l’invocazione del Nome santo di Gesù, il Nome dato da Dio tramite l’angelo al bambino che doveva nascere dalla Vergine Maria: Ieshoua, “JHWHè salvezza”! Questo bel Nome invocato sui cristiani (cf. Gc 2,79), questo Nome che è al di sopra di tutti gli altri nomi (cf. Fil 2,9), l’unico Nome in cui c’è salvezza (cf. At 4,12), è diventato per i cristiani ciò che il Nome del Signore,JHWH, era per gli ebrei.
A partire dal V secolo, negli ambienti monastici d’Oriente è proprio l’invocazione del Nome di Gesù a essere privilegiata come preghiera personale, nella convinzione di poter, attraverso il Nome salvifico, vincere la tentazione e unificare tutto l’essere in una tensione forte di comunione con Dio.
Invocazione e meditazione si fondono e si alternano, mettendo in accordo le labbra e la mente, così che nel profondo del cuore si giunge all’esperienza della presenza del Signore: “Cristo in noi, speranza della gloria” (Col 1,27). È la preghiera “monologista” (monológhistos) nella quale si eserciteranno generazioni e generazioni di monaci orientali e che a poco a poco finirà per essere costituita quasi esclusivamente dall’invocazione “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”, a esclusione di altre forme di supplica o di meditazione. Quando un novizio pronuncia i voti monastici, gli viene consegnato un rosario, chiamato “la spada spirituale”, ed egli impara a praticare la preghiera di Gesù giorno e notte. Sarà questa preghiera a contrassegnare l’esicasmo (corrente spirituale sviluppatasi al Monte Athos nel XIII secolo), in cui all’invocazione a Gesù verranno associati elementi di tecnica psicosomatica, nell’intenzione di rendere partecipe della preghiera anche il corpo. Questa è stata dunque la via dell’Oriente cristiano: la ripetizione di un’invocazione a Gesù, una formula giaculatoria con contenuto biblico e profondo significato teologico e spirituale per chi la pratica. Essa, infatti, instaura nel cuore dell’orante un sentimento di umiltà e l’esperienza della presenza misericordiosa di Gesù, permettendo l’unificazione di tutta la persona in un’assiduità con il Signore che è una forma della “preghiera continua” possibile all’uomo.
Del resto, anche nella tradizione ebraica hassidica la venerazione del Nome santo di Dio ha conosciuto una pratica di ripetizione: quando qualcuno, per pura grazia, giungeva a conoscerne la pronuncia, questi – chiamato baal Shem, “signore, possessore del Nome” – lo invocava ripetutamente, divenendo un contemplativo e un intercessore.
Né va dimenticato che il metodo di orazione ripetitivo e meditativo non è sconosciuto ad altre vie religiose: vi si possono riscontrare analogie con la preghiera di Gesù e con lo stesso rosario, ma esse vanno colte nella loro qualità di mezzi, di strumenti umani per la ricerca di un’assiduità con Dio, e permane comunque una differenza fondamentale: mentre nelle tecniche dell’Oriente non cristiano è il metodo che ha il primato in vista di una condizione di contemplazione, nella preghiera cristiana il primato spetta sempre all’azione dello Spirito santo, “lo Spirito che prega in noi” (cf. Rm 8,15.26; Gal 4,6), senza il quale non c’è autentica preghiera cristiana.
In particolare, nella ricerca di Dio condotta dalle genti dell’India è praticata una forma di preghiera che consiste nel ripetere molte volte al giorno, con l’aiuto di una corona di grani, una brevissima invocazione alla divinità, una formula mistica (il mantra) a volte associata a tecniche psicosomatiche (ajapamantra). È una preghiera per acquistare pace interiore e giungere a una visione penetrante della realtà, preghiera attestata anche nel buddhismo cinese (X secolo) e giapponese (XIIIsecolo), quale invocazione a Buddha Amida, e molto praticata anche ai nostri giorni nel buddhismo tibetano: i lama portano sempre al polso sinistro il rosario buddhista (mala).
Va inoltre ricordata una forma di preghiera presente nella tradizione spirituale dell’Islam: il dhikr, nel quale, proprio in vista del ricordo incessante di Dio, si fa menzione ripetuta del suo Nome e si cerca di dimenticare tutto ciò che non è Dio. Questa pratica è sorta nel sufismo in epoca relativamente tarda, nell’XI-XII secolo, ed è ben descritta da un testo di al-Ghazali: “Dopo essersi seduto nella solitudine, il sufi non cesserà di dire con la bocca: Allah, Allah, continuamente, con la presenza del cuore”. Si tratta dunque di una memoria Dei, attuata attraverso l’invocazione del Nome di Dio (Allah) o dei suoi novantanove nomi, tanti quanti i grani del rosario musulmano (sebhaa): una pratica sia solitaria che collettiva (almeno nelle confraternite di sufi) in vista di una comunicazione con Dio. Anche tale pratica a volte si serve di tecniche psicosomatiche, che tuttavia restano puramente strumentali perché, come insegna al-Ghazali, “non è in potere del sufi impegnato nel dhikrattirare a sé la misericordia di Dio, l’Altissimo”.
Se è utile confrontare il rosario con queste forme di preghiera ripetitiva presenti in altre religioni, l’accostamento più significativo rimane quello alla “preghiera del cuore” dell’Oriente ortodosso ricordata sopra: tra le due “pratiche” nei secoli passati ci sono state indubbie influenze reciproche. Così, nel secondo millennio, è emerso in Occidente l’uso di “giaculatorie” (invocazioni a Dio vibranti e rapide come un lancio di giavellotto,iaculum) e di litanie, ripetizioni di nomi e attributi del Signore o dei santi, con richiesta di intercessione: tra esse troviamo la sistematica ripetizione dell’annuncio dell’angelo a Maria.
Ora, esaminando più da vicino il rosario, questa “preghiera del cuore” occidentale, vediamo che esso si articola in un duplice movimento: c’è una prima parte in cui la lode e la gioia dell’Incarnazione sono vissute nel ripetere il saluto dell’angelo a Maria e che ha il suo culmine nella pronuncia del Nome santo di Gesù, cui segue una seconda parte in cui trova posto l’invocazione. I due tempi essenziali della preghiera cristiana – lode e invocazione – sono quindi presenti, e al centro vi è il Nome di Gesù, l’unico nome in cui c’è salvezza, il nome della “dolce memoria” cristiana. Né si dovrebbe dimenticare che l’Ave Maria è di per sé preghiera ecumenica, dato che la teologia della Riforma non ha mai condannato l’invocazione a Maria perché preghi, interceda per noi.
È evidente la matrice biblica dell’Ave Maria: ciò che si ripete nella prima parte sono parole dell’angelo (“Ave, piena di grazia, il Signore è con te”: Lc 1,28), sono parole di giubilo di Elisabetta (“Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno”: Lc 1,42) che evocano le promesse-benedizioni di Dio nell’Alleanza (cf. Dt 28,4). All’origine dell’Ave Mariac’è allora, semplicemente, un duplice saluto biblico a Maria che sfocia nell’invocazione del Nome di Gesù, dunque in una “preghiera a Gesù”. La fede della Chiesa ha poi avvertito il bisogno dell’invocazione “prega per noi”:prega per noi“ora”, per noi poveri “peccatori”, e prega per noi “nell’ora” escatologica, l’ora “della nostra morte”, del nostro esodo da questo mondo al Padre.
La nostra esperienza dice che il rosario è una preghiera “preziosa”, anche in virtù di quella semplicità, di quella “povertà” cui accennavamo prima: per alimentare la nostra vita spirituale, infatti, non sempre ci è possibile ricorrere a una preghiera che si nutra della lettura della Scrittura, mentre è facile in ogni luogo e in ogni situazione recitare il rosario, magari anche solo una sua parte, una “decina”, un “mistero”… È preghiera pacificante che predispone in noi una situazione di unificazione di tutto l’essere – corpo, psiche e spirito –attraverso la lode gioiosa alla madre del Signore e al Nome santo di Gesù, e attraverso l’invocazione di una preghiera di intercessione.
Con il rosario, dunque, si prega e si chiede preghiera – nella comunione di tutti i santi, sempre intercessori per noi – alla madre del Signore: “ora pro nobis”, prega per noi, per noi tutti. E attraverso questa formula si può meditare il grande mistero della salvezza operata in Gesù Cristo, dall’Incarnazione alla misericordiosa e gloriosa Venuta! Così meditazione, preghiera e contemplazione si intrecciano nel rosario attorno al Nome santo di Gesù: “è preghiera dal cuore cristologico”, ha scritto Giovanni Paolo II (RVM 1), e proprio per questo può essere preghiera dei semplici come degli intellettuali, dei vecchi come dei bambini, preghiera di tutti quelli che provano nostalgia per la preghiera continua e si sentono poveri peccatori.
(Enzo Bianchi, L’Osservatore Romano, 18 gennaio 2003)