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Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui,
porta molto frutto,
perché senza di me
non potete far nulla
(Giovanni 15,5)

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Prologo al libro del Cohèlet
(Rocco Quaglia)

 È scritto che Dio fa tutto quello che gli piace (Sal 115, 3), a Dio piace amare, ma a noi questo suo amore non piace: Lui è Spirito e noi siamo carne.

Cohèlet è l’uomo che dalla carne ha avuto tutto, per la carne ha fatto tutto, con la carne ha provato tutto. I suoi occhi hanno visto le cose più belle, le sue orecchie hanno udito le voci più gradevoli, le sue mani hanno toccato quanto di più piacevole ci sia sulla terra, la sua bocca ha assaporato tutti i sapori della terra, e le sue labbra hanno baciato mille donne. Di che cosa egli dunque si lamenta?

Cohèlet è stato sedotto da tutti i piaceri, e tutto egli amò: re e figlio di re è stato servito, elogiato, magnificato da tutti. Sicuramente ebbe l’amore del seno e di una madre adorante, nei suoi occhi egli poté osservare le migliori promesse della vita. Ebbe l’ammirazione di un padre, del più grande dei padri, l’amato dal popolo e da Dio; conobbe gli affetti dell’amicizia e le intimità della passione: nessun amico fu mai irrispettoso nei suoi riguardi, nessuna donna sottrasse il volto ai suoi sguardi. Da tutti fu ammirato, lodato, glorificato. Di che cosa egli dunque si lamenta?

Nessuno mai gli diede un “No!” in risposta; nessuno gli rimproverò mai un capriccio. Da nessuno rifiutato, fu sempre gradito a tutti. Nessuno fu mai triste alla sua presenza; nessun dolore lo afflisse, né sciagura lo colpì, né lutto lo immalinconì. Visse senza sensi di colpa, senza rimorsi e senza rimpianti. Dio aveva affidato alla sua mente tutti i tesori della conoscenza, e del suo cuore aveva esaudito ogni desiderio. Di che cosa egli dunque si lamenta?

Può forse il mare esser grato per la pioggia, o il deserto per il sole? No! L’animo di Cohèlet non evaporò in adorazione verso il cielo, né mai il suo spirito seppe dei fiori dell’Eden. Ora, egli si lamenta di non avere più tempo, e di non avere l’unica cosa che renda vera la vita. Egli ha posseduto ogni cosa, ma senza avere nulla; ha accumulato molte avventure, ma senza farne esperienza. In ogni momento, la vita si è rallegrata di lui, senza che mai il suo cuore si sia rallegrato di vivere. Egli non avvertì mai la gioia che pur il più piccolo dei fiori esprime al cielo nel suo primo giorno di primavera, ossia la semplice gioia di esserci: essere nell’aria e nel vento, essere nell’acqua della pioggia e delle onde, essere nell’odore dei campi e della resina dei boschi, essere sulla cima di un monte o di un promontorio di fronte al mare. Egli non imparò mai a dire la parola Grazie!

La gratitudine è il solo sentimento che dia valore alla vita e alle nostre esperienze di vita; ma per essere grati di un dono, bisogna che si riconosca un Donatore.

Il significato della vita non è nel mondo, né nel suo dominio, né nei suoi piaceri, ma nella sorpresa di chi - grato - si scopre, come chi scopre in uno sguardo la gioia di chi lo riama. Terribile è questo momento, e porta di Vita eterna. Avere tutto gratuitamente, consumare tutto con avidità, appagare i desideri alla sorgente, vuol dire vivere attimi scardinati dal tempo, senza più speranza di futuro, né progetto di vita, né meta che a sé attiri con la sua gioia. Cohèlet, arrivato alla fine della vita, sa che tutto ciò che è stato non conta nel “luogo” in cui andrà; tutto ciò che ha avuto, altri lo avranno; tutto ciò che ha fatto, che ha conosciuto, e ha assaporato di questa vita, presto svanirà come se nulla sia mai avvenuto. Finalmente si sente solo, unico protagonista di un’esistenza trascorsa tra persone che per lui furono soltanto comparse.

La luce ha valore ed è preziosa soltanto se è insidiata dalle tenebre, così la vita va vissuta con la consapevolezza della morte. Ora Cohèlet scopre che tutto quel che ha attualizzato in conoscenze e in opere è cosa effimera, perché effimero è il tempo dell’umana esistenza. La morte chiede una vita e un sacrificio, ma lui non ha nulla da sacrificare alla morte in cambio della sua vita. Cohèlet è l’uomo che ha vissuto negando la propria morte, finché questa non si è insinuata nel suo cuore con tutti i suoi spaventi. Ecco l’uomo che ha detto nel suo cuore: «Tutto avviene per le circostanze, tutto dipende dal fortuito caso; ignota è ogni causa» (Qo 9,11). Ora, di fronte alla propria morte prende coscienza che nulla è importante, e nulla di quel che, in tanti anni, ha appreso gli serve; nessuno può soccorrerlo. Sotto il cielo, tutto improvvisamente diventa vano, assurdo, insensato, mentre la propria esistenza diventa degna di un pazzo.

Aveva udito, al tempo della fanciullezza, parole di vita eterna (Gv 6,68), ma erano diventate parole di un tempo lontano, quanto è lontana la vecchiaia dalla giovinezza; era, quella, una vita inseguita, senza albe irrorate né frescura di sere marine. Come rinunciare alle promesse di occhi vivi, per la speranza di un arcobaleno? Qohèlet ha vissuto con tutto il suo corpo, con tutta la sua anima, e con tutte le sue forze la vita che un destino gli aveva assegnato, finché dalle sue oscurità non spuntò il pensiero dell’eternità (Qo 3,11).

Prossimo alla vanificazione della sua esistenza, cerca conforto tentando di vanificare la vita stessa, enumerando le ingiustizie e i mali che si consumano sotto il sole.

Non c’è risposta che possa consolare Qohèlet; poiché tutto quello che egli desidera è qui, su questa terra; infatti, se la morte è il grande estuario della vita, allora vana diventa perfino la gioia, vano il dolore, vana la sapienza, vana la conoscenza, poiché nella morte non c’è ricordo, né speranza, né nostalgia di qualcosa di caro.

Cohèlet è re in questo mondo, un mondo in cui è a suo agio; ma la morte ha bussato nell’ora che non sapeva, nel giorno che non attendeva. È entrata, non vista, con un brivido, insinuandosi nel tepore dei pensieri più solitari. Si annunciò con uno dei suoi tanti nomi, presentandogli un’ordinanza di sfratto. Incredulità, sorpresa, stordimento, rabbia, tradimento, delusione, avvilimento, sono i sette toni emozionali della disperazione di Cohèlet. Egli sa che presto l’anima gli sarà strappata dal petto, come la vela dalla bufera. Eppure, il Dio dei padri gli aveva parlato nella sua adolescenza, gli diede sapienza affinché lo cercasse, intelligenza perché lo temesse. Nella giovinezza, tuttavia, non temette di allontanarsi da Dio; ora, nella vecchiaia ha paura di avvicinarsi a Dio.

Qohèlet nella vita ha ricevuto il bene soltanto, ma il bene che si riceve non crea l’amore. L’amore è il dono che matura nel cuore dell’uomo, all’arrivo del Vento di Dio. L’amore prende forza nel dolore, ha la sua volontà nel bene, la sua libertà nella generosità, la sua verità nella gioia. Qohèlet è rimasto bambino, parla da bambino, pensa da bambino, ragiona da bambino. L’amore per lui è: «Prendo ciò che voglio e nessuno, se mi ama, me lo deve impedire», e ancora: «Faccio ciò che voglio e nessuno, se mi ama, deve ostacolarmi» (1Cor 13,12).

Oggi sono molti i Qohèlet che si aggirano nel mondo. La loro apparenza esteriore è quella degli adulti, ma il contenuto è fatto di cose infantili: i pensieri sono onnipotenti, i sogni irrealistici, il sé è grandioso, l’orgoglio è sconfinato, le frustrazioni sono intollerabili, la minima offesa è un’insopportabile oltraggio, l’adorazione di sé è inappagabile, l’aggressività è incontenibile. Coèlet è re, e nella sua esistenza ha fatto tutto, ho provato tutto, ha avuto tutto, ha conosciuto tutto, e ora si ritrova solo sul bordo della vita. Il suo dolore è non poter continuare a essere ciò che è sempre stato. La scelta di ogni uomo è tra adorare l’invisibile Dio, o adorare sé stesso; non potersi più adorare nel mondo delle tenebre è la sofferenza più grande per chi ha idolatrato in vita l’immagine solare di sé.

Cohèlet è l’uomo degli ultimi tempi: egoista, amante del denaro, vanitoso, orgoglioso, senza il sentimento del divino, disubbidiente, ingrato, senza pietà, incapace di empatia, sleale, disumano, spietato, «amante del piacere più che di Dio» (2Tim 3,4).

 È bello essere re, avere una moltitudine di servitori, vivere una vita di soli diritti. Tuttavia il cammino cristiano ci insegna a servire, cosa che comporta un’esperienza di progressiva spoliazione di ciò che si ha e si pensa di essere. C’è un momento di questo cammino, infatti, in cui tutto sembra perduto. Il cielo, a poco a poco, si chiude e non lascia più passare le preghiere. Dio diventa silenzioso, assente, lontano; la sua Parola perde sapore e il Cielo sfuma i suoi colori, Il credente giunge in un luogo angusto, vuoto, senza più spazio, circondato da alte mura. Non uscirà di là «finché non avrà pagato fino all’ultimo spicciolo» (Mt 5,25; 18,35). È – questo - il tempo dell’abbandono e della “rivelazione” del cuore dell’uomo; ed è questo, ora, il tempo di Cohèlet.

Qohèlet è l’altro Giobbe. A Giobbe è stato tolto tutto, affinché scoprisse il Donatore; a Qohèlet è stato lasciato tutto, perché non si allontanasse dal suo Signore. È scritto che Dio non prova nessuno di là delle sue forze (1Cor 10,13).

Giobbe si sentì maledetto per i mali ricevuti; Qohèlet invece si sentì benedetto per i beni ricevuti. Giobbe riconobbe che tutto è dono, compresa la morte, e lodò Dio, dicendo: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; benedetto sia il Nome del Signore» (Gb 1,21).

Cohèlet non ha riconosciuto l’opera di Dio nella sua vita; egli è re per diritto di nascita. Giobbe e Cohèlet, due personalità differenti, due diversi cammini per giungere alla sola cosa che conti, il Regno di Dio (Mt 6,33). Dio ha votato allo sterminio il “regno” di Giobbe, per dargliene uno eterno; ma ha lasciato intatto il regno di Cohèlet, che in cambio del suo regno avrà salva la sua sola vita. Alla fine, uno dirà: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5); l’altro concluderà il suo discorso con l’esortazione: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (Qo 12,13). Giobbe loda; Cohèlet teme.

Il male ha messo Giobbe nella condizione di riconoscere la grazia e la misericordia di Dio; il bene ricevuto non ha permesso a Cohèlet neppure di considerare la generosità di Dio. Quel che a Giobbe appariva un male troppo grande si è rivelato un grande bene, mentre il bene senza misura elargito a Cohèlet si è rivelato un male dalle conseguenze eterne, un’eterna infanzia.

Cohèlet non divenne un delinquente, perché non aveva bisogno di rubare; né aveva nemici da odiare, poiché tutti servili; né aveva desideri da non poter soddisfare, una tavola sempre imbandita era davanti a lui. Perciò la condizione del delinquente penitente è più desiderabile di quella di Cohèlet; il primo realizza il fallimento della propria vita, il secondo la vanità di ogni vita.

 Tuttavia, altre letture sono possibili di questo libro; in Cohèlet, infatti, Dio fa proprie le ragioni dell’uomo; condivide le speranze e le amarezze dell’essere umano. In queste pagine, è Dio stesso a prestare le parole a Cohèlet, per comunicargli che Egli sa e prova quel che anche il più “fortunato” degli uomini vive e prova.

In Genesi è scritto: «E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» (Gen 6,7). Dio non si addolora di aver “creato” l’uomo, ma di averlo “fatto” sulla terra, o meglio con la terra.1 La grande opportunità che il libro di Cohèlet ci offre è di sapere che Dio sente quel che l’uomo sente. Su questo sapere ognuno di noi può rifondare la propria fede tanto scossa dagli eventi umani. Infatti, quando sentiamo che Dio sente quel che noi sentiamo, è allora che sentiamo in noi il suo amore e corriamo ad aprire tutte le porte del nostro cuore.

Nel libro del Cohèlet, dunque, Dio srotola i giorni dell’uomo come tappeti pieni di polvere e di macchie; lamenta, pur nelle migliori condizioni, l’inesorabile fallimento dell’umana esistenza; dichiara la vanità delle sue passioni, dei suoi tormenti, delle sue fatiche. Troppo grande è il desiderio che Dio ha messo nel cuore dell’uomo, che neppure mille anni di vita basterebbero ad acquietare. C’è un desiderio di Vita nel cuore dell’uomo così grande che soltanto l’eternità può placare.

Dio si fa uomo e vive da uomo questo desiderio facendosi “porta” e “via”: è la via di Giobbe, quella che conduce alla morte e alla risurrezione.

Il cristiano può così scegliere tra il trono di Cohèlet e la cenere di Giobbe. Dio ama entrambi di uno stesso amore, ma per ognuno è diverso il gusto di questo amore.

Qohèlet non supererà mai l’adolescenza spirituale, Giobbe diverrà padre di figli e figlie, divenendo un donatore di Vita. Per Cohèlet sono arrivati invece

i giorni malvagi, ma Dio non si allontana da lui; al contrario, fa proprio il suo lamento e lo insegna a quanti non trovano le parole per dire di tanta vanità.

Qohèlet, fu re di un regno, chiede qualcosa che nessuno ha, chiede di essere amato. Mendicante giace ora alla porta detta “Bella” del Regno di Dio (At 3,2).  

 Giobbe, dopo aver perduto ogni cosa, chiede a Dio il motivo della sua sofferenza; Qohèlet, invece, si lamenta per la propria fine, simile a ogni altra fine. «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3), è la prima delle nove beatitudini: non la prima di una lista di beatitudini, ma quella che le contiene tutte. Come il popolo d’Israele dall’Egitto, così siamo usciti noi dal mondo: carichi di desideri e di beni terreni. Ora, nel regno dei cieli entrano soltanto i poveri nello spirito (Mt 5,3). Cohèlet è l’uomo ricco per eccellenza: ricco di beni materiali, ricco di sapienza, ricco persino di Dio. Che cosa gli manca? Il sentimento della povertà di Dio! Cohèlet ha realizzato nel proprio cuore la propria povertà, inutilità, impotenza, vacuità, in una parola, la propria debolezza di fronte alla morte; ha realizzato che tutte le ricchezze del mondo non sono sufficienti a riscattarlo dal destino che accomuna sia uomini sia animali. Egli dunque si scopre debole; ma altra è la debolezza di Dio (1Cor 1,25), quella che dà forza, e fa gloriare delle proprie debolezze (2Cor 11,30). L’apostolo Paolo scrive: «Quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,10). Nella debolezza infatti si confida in Dio; anzi, più le fragilità appaiono smisurate, più sarà incrollabile la fede e l’abbandono alla misericordia di Dio. Quando tutto diventa impossibile all’uomo, allora diventa possibile affidarsi totalmente alla volontà, buona, santa, perfetta di Dio (Rm 12,2). Non si tratta di una rinuncia alla propria volontà ma di fare propria la volontà di Dio. Il sapere che Egli desidera la nostra salvezza (1Tim 2,4) è lo stimolo più grande, per chi crede, a sperare, ed è il più grande motivo perché questi viva la vita esuberante (Gv 10,10). Tutto quello che non è possibile all’uomo, è possibile a Dio (Lc18,27); anzi: «Ogni cosa diventa possibile a chi crede» (Mc 9,23).

Nella debolezza, non nella forza; nella povertà, non nelle ricchezze; nell’umiltà non nella grandezza è dunque la nostra vittoria, il nostro islam (abbandono) e il nostro jihad (sforzo).

Questa è la grande lezione che Cohèlet non ha mai avuto; non l’ha avuta perché non poteva riceverla; non l’ha mai ricevuta perché non l’ha mai desiderata. Tutto ha desiderato delle cose del mondo, tutto ha indagato, provato, compiuto sotto il sole, ma neppure uno sguardo ha rivolto in tutta la sua esistenza al cielo, a quel che è sopra il sole.

Togliere all’uomo le sue forze è il compito dello Spirito Santo, per sradicare dal suo cuore le radici della follia. L’uomo nasce con qualcosa di grande dentro di sé, con l’immagine di Dio. Per ritrovarla è necessario distruggere l’involucro, cioè l’uomo esteriore. Soltanto con la perdita del Sé esterno, si ritrova il vero Sé. Perdersi per ritrovarsi segnano i due momenti centrali del cammino cristiano.

Per essere grati a Dio di sé stessi, come di qualsiasi dono, è necessario sentire di essere perduti. Nessun vedente ringrazia per il dono della vista; ma se la perde e poi la ricupera allora saprà dire: “Grazie!”. Anche Dio deve essere perduto e poi riacquistato.

Non l’ateo è senza Dio; senza Dio è l’esperienza che fa chi più non “Lo” trova. Non chi si allontana da Dio perde Dio, ma colui dal quale Dio distoglie lo sguardo. Nessuno è più povero di un amato abbandonato! Soltanto nell’abbandono di Dio l’uomo conosce la vera povertà, e nessuno l’ha vissuta più profondamente e nelle peggiori condizioni dell’uomo Gesù (Mt 27,46). Gesù muore non per le ferite, muore perché Dio si vela il volto per non vedere la vita agonizzare sulla croce (2Cor 5,21).

Cohèlet vive la sua lontananza da Dio e avverte quanto amaro sia essere povero di Dio. Egli è caduto nel male dell’avvilimento, nella tristezza che porta a ravvedimento (2Cor 7,10). Egli, al pari della persona depressa, sta vivendo la propria morte, una morte che non muore. Dio prova i suoi nel crogiuolo dell’afflizione (Is 48,10), affinché essi giungano a disperare persino della propria fede, una fede ancora carnale, affinché afferrino la promessa che viene dalla fede di Gesù Cristo (Iesou Cristou) (Gal 3,22). Aprire gli occhi e vedere la realtà che è fuori della nostra mente è un’esperienza di dolore senza fine. Gesù non invano ha inserito nella preghiera insegnata ai suoi discepoli: «Non introdurci nella prova» (Mt 6,13), vale a dire: «Non aprire i nostri occhi se non possiamo vedere Dio».

Cohèlet è un uomo che non vede l’azione di Dio nelle cose della sua vita, non ne ode la voce, non avverte alcuna sua presenza, né più scorge i segni del divino nel suo quotidiano. Quando Dio si nasconde, tutto diventa assurdo, «vanità di tutte le vanità».

Ecco dunque la lezione che ci viene da questo libro: essere re e possedere tutto il mondo con le sue ricchezze, la sua gloria e il suo potere non vale un solo attimo senza Dio (Mt 16,26); L’amore di tutte le persone care non vale un solo sguardo del nostro Signore (Lc 14,26).

Più di ogni lutto umano, più di ogni superbia della vita, più di ogni ingiustizia del mondo, più di ogni crudeltà degli uomini, più di ogni concupiscenza della carne, più di ogni persecuzione dei potenti, più di ogni oltraggio dei nemici, vale l’amore di Dio (Mt 5, 10-11).

Nota

1Eb. בארץ (ba’arets), tradotto generalmente “sulla terra”, si può invece tradurre “con la terra”. I significati della lettera ב (bet) sono: in, dentro, presso, durante, a causa di, per mezzo, per, fra, contro, con.

“Su” o “sopra” la terra in ebraico è reso con הארץ על (‘al­ ha’rets). Pertanto il passo tradotto: «(L’uomo) domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gen 1,26), poiché la lettera è ב (bet) si può rendere con «(L’uomo) domini presso i pesci del mare e presso gli uccelli del cielo, presso il bestiame, presso tutti gli animali selvatici e presso tutti i rettili che strisciano sulla terra». “Presso” o “tra”, attenua il dominio dell’uomo sulle creature, assegnandogli un posto “tra”, non “su”. L’uomo è invitato a dominare convivendo, non sterminando le creature che gli sono state affidate.

MDI

Maria Immacolata ha capito che occorreva dare la propria disponibilità a Dio; alle nozze di Cana ha insegnato ai servi a dare la propria disponibilità a Dio: "Fate tutto quello che Egli vi dirà". (Gv 2,5).
(Movimento dell'Immacolata)