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Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui,
porta molto frutto,
perché senza di me
non potete far nulla
(Giovanni 15,5)

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Riflessioni psicologiche
sulla paternità di Dio 

(Rocco Quaglia)

 

Abbreviazioni dei libri della Bibbia

Gen     Genesi
Es        Esodo
Is          Isaia 
                      Mt           Vangelo di Matteo
                      Gv           Vangelo di Giovanni
                      Rom         Lettera ai Romani
                       Eb            Lettera agli Ebrei 

Introduzione

Secondo Freud, il bambino prenderebbe il padre quale proprio ideale; anzi svilupperebbe nei suoi confronti un interesse particolare fino a voler essere come lui, e sostituirlo in ogni cosa (Freud, 1921).

In L’avvenire di un’illusione (1927), egli sostiene che dietro la stessa evoluzione dell’idea di Dio sia celato un nucleo paterno. A causa, dunque, del perdurare nell’uomo del senso d’impotenza, Dio diventerebbe una figura paterna sostitutiva.

Si ha un ricupero della figura paterna, in Freud, soprattutto negli ultimi lavori, in cui si insiste sulla necessità di un rapporto affettivo tra il bambino e il padre; tuttavia, egli fonda un tale bisogno essenzialmente sulle fragilità del piccolo e non su un programma evolutivo. Proprio una tale condizione di fragilità ispirerebbe il bambino, una volta divenuto adulto, a cercare in Dio una figura protettiva vicaria del padre.

In queste pagine, da un lato, s’intende evidenziare quanto la ricerca psicologica abbia appurato circa il ruolo e l’importanza del padre nello sviluppo psichico del bambino, dall’altro lato, si vuole mettere in luce la valenza terapeutica che il nome di Padre del Dio biblico assume nei riguardi dell’uomo ancora immerso in una dimensione affettiva filiale.

Gli scritti biblici fanno costante riferimento a un processo di “guarigione” dell’uomo, in conseguenza di un cambiamento di mente (Ef 4.23); tuttavia, di là di un eventuale cambiamento, ci preme sottolineare il carattere della relazione che Dio progressivamente instaura con l’uomo attraverso i nomi con i quali si rivela. Sembra esistere un parallelismo tra la scoperta del padre nel bambino e la scoperta del Padre «che è nei cieli», determinando, in entrambi i casi, un cambiamento con il passaggio dell’individuo dal mondo affettivo “materno” a quello “paterno” (Quaglia, 2014).

Ogni intervento terapeutico mira a un cambiamento del paziente che favorisca la creazione di nuovi modelli relazionali: nuovi, poiché altri, rispetto ai modelli interiorizzati dal bambino nel rapporto con la madre, e nuovi, poiché differenti, sono i modelli che il padre offre al figlio. Pur con le dovute differenze e con un diverso percorso, non dissimile appare l’obiettivo nella prospettiva biblica (Rom 13.9). Fondamentale - in entrambi gli ambiti - è la costruzione di un rapporto tra l’individuo e l’Altro (terapeuta o Dio), in cui dall’esperienza dell’interazione emergerebbe un nuovo “modello psichico”, vale a dire un nuovo modo di percepirsi e di essere con gli altri.

Negli scritti biblici, la relazione con Dio Padre diventa condizione sia di “svelamento” dei modelli comportamentali dell’uomo, scopo della terapia relazionale (Mitchell, 1993), sia di riorganizzazione delle esperienze affettive in conseguenza dell’assimilazione di una nuova configurazione sé-altro, scopo della terapia a orientamento intersoggettivo (Stern, 2004).

 La funzione del padre nello sviluppo del bambino

I dati acquisiti mediante la ricerca sulla famiglia valutano, generalmente, la relazione madre-bambino. L’interesse per la figura del padre ha avuto inizio negli anni Sessanta (Lamb, 2004). Si assiste, in seguito, a un aumento dell’interesse degli studiosi sulla figura del padre con riferimento non soltanto alle dinamiche familiari (Lamb, 1986; Belsky, 1984; Sroufe e Fleeson, 1988), ma anche alle caratteristiche della funzione paterna (Cath et al., 1989), e allo sviluppo psicologico del bambino (Fein, 1978; Biller, 1993).

Un importante contributo sull’influenza del padre sul benessere dei figli è stato presentato da Paul Amato (1994), che, in particolare, ha rilevato come un positivo coinvolgimento del padre nell’educazione dei figli favorisca rapporti empatici con gli altri e un positivo processo di socializzazione. Si tratta di due competenze che sono alla base di ogni progresso sociale e civile.

Da un esame della letteratura più significativa, i contributi più importanti sull’influenza del padre si possono raggruppare in alcune linee principali.

  • Il padre promuove una maggiore autonomia e indipendenza nel figlio (Abelin, 1975); lo aiuta a
    liberarsi del legame simbiotico con la madre, facilitando il processo di separazione-individuazione
    (Pacella, 1989); favorisce l’autonomia delle funzioni dell’Io, e la consapevolezza di essere un
    individuo con proprie caratteristiche (Lamb, 2004).

 Il padre appare più interessato della madre alla differenziazione sessuale dei figli, esercitando una

maggiore influenza sulla tipizzazione relativa all’identità sessuale (Lamb, 1986). Inoltre, gli aspetti qualitativi di una positiva relazione con la figura paterna sembrano assumere un importante ruolo nell’acquisizione dell’identità di genere (Biller, 1971). Il padre, infatti, a differenza della madre, vedrebbe i figli non come bambini, ma come individui maschi e femmine, cioè come rappresentanti dei rispettivi ruoli sessuali (Lynn, 1974). Seppure la semplice presenza fisica del padre non costituisca un fattore determinante per un’adeguata acquisizione dell’identità di genere, il suo ruolo resta fondamentale (Biller, 1968, 1969; Brown, 2010).

 Una presenza coinvolta del padre tende a favorire l’acquisizione delle competenze sociali, intellettuali ed emotive nei figli (Lamb, 1987, 2004). I bambini con una soddisfacente relazione con i propri padri manifesterebbero ridotti problemi di comportamento e più alti livelli si socievolezza (Verschueren, Marcoen, 1999). Il padre incoraggerebbe la crescita sociale e la capacità di relazionarsi con i coetanei (Lamb et al., 1982). In particolare, i bambini coinvolti in attività ludiche con i padri, oltre a incrementare le proprie abilità sociali (Lindsey et al., 1997), mostrerebbero una maggiore autostima e capacità di autoregolazione (Paquette, 2004; Kochanska et al., 2008). Inoltre, il padre favorirebbe lo sviluppo cognitivo (Biller, 1993), e un adeguato sviluppo emozionale (Belsky, 1984). 

 Una buona relazione con il padre, infine, sarebbe alla base di un soddisfacente sviluppo morale, di autocontrollo, di disciplina, di senso di responsabilità (Hoffman, 1981; Radin, 1982; Kim, Kochanska, 2014). Una positiva presenza paterna inibirebbe condotte socialmente indesiderabili, quali bugie e furti (Meyer-Kramer, 1980). In caso di deprivazione della figura paterna si assisterebbe a uno sviluppo di comportamenti antisociali e perfino delinquenziali (Biller, Kimpton, 1997).

Da questa breve rassegna, il padre, assumerebbe progressivamente un ruolo complementare e supplementare a quello materno, in vista di una piena attuazione delle potenzialità del bambino.

La relazione con il padre è affettivamente complementare, poiché rende completo l’ambiente in cui il bambino è chiamato a esprimersi e a svilupparsi; inoltre, è una relazione supplementare, poiché si aggiunge a quella materna, poiché maggiormente disponibile a favorire e a incoraggiare le crescenti abilità del piccolo. I padri sono particolarmente coinvolti in attività di gioco (Kazura, 2000), e sono spesso i compagni dei giochi preferiti dai bambini (Yeung et al. 2001). Rispetto alle madri, i padri propongono attività più eccitanti e stimolanti, come la lotta e la competizione (Bronstein, 1984; Ross, Taylor, 1989).

Madre e padre sono due poli di un sistema affettivo e costituiscono due differenti mondi sensoriali, emotivi e relazionali. Il padre è l’altro modo di sentire, di percepire e di pensare la vita; egli apre un nuovo mondo ai figli con i propri interessi e con le proprie idee, e soprattutto insegna loro a guardarsi con occhi diversi (Winnicott, 1964; Quaglia, 2014).

Nel passaggio dalla madre al padre avviene il più grande cambiamento del bambino, che lentamente si trasforma in figlio, entrando nel mondo regolato da diritti e da doveri (Quaglia, 2000).

L’incontro con il padre, dunque, facilita il processo di distacco del bambino dalla madre (Gaddini, 1977); suscita nel piccolo il sentimento della fiducia; crea un nuovo modello relazionale e, attraverso l’idealizzazione della figura paterna, si attua una vera e propria riorganizzazione della sua personalità (Kohut, 1971).

Per concludere, Heinz Kohut (1977) evidenzia che il bambino esprime i suoi bisogni narcisistici di base mediate due tipi di relazione. Dapprima, il piccolo ha bisogno di essere ammirato per ciò che è e sa fare, esprimendo così il suo senso di onnipotenza e di grandiosità. Con la scoperta della deambulazione, inizia a rendersi conto di essere piccolo in un mondo troppo grande. È compito del padre aiutare il bambino - offrendogli la possibilità di instaurare con lui una nuova forma di relazione – non soltanto di individuarsi rispetto alla madre, ma di acquisire un’immagine binoculare di sé, cioè capace di trasmettergli il senso del suo spessore, o concretezza (Quaglia, 2014). Alla genitrice piena di ammirazione, dovrebbe subentrare il genitore idealizzato, in modo che il bambino possa accettare le immagini attenuate di sé per le inevitabili frustrazioni esperite nella sua attività di esplorazione del mondo. Il bambino avrebbe un’innata tendenza a separarsi dalla madre (Mahler, 1974), ma senza l’intervento del padre, vengono meno le motivazioni e le risorse per affrontare la solitudine e i rischi del mondo esterno. Senza un padre che proponga al bambino nuovi stimoli e nuovi movimenti, questi non ha motivi per “lasciare” la madre.

La relazione con il padre costituisce, dunque, la condizione necessaria, affinché l’individuo possa abbandonare i modelli relazionali infantili e organizzare le sue nuove esperienze in una diversa dimensione emotiva, passando da una configurazione di sé e dell’altro, secondo il tema bambino-madre, alla configurazione di sé e dell’altro nella dimensione affettiva del tema familiare figlio-padre.

Queste poche considerazioni consentono di comprendere, la funzione che Dio si assume nel rapporto con l’uomo, qualificandosi come “Padre”.

Tuttavia, dire che Dio è “padre” non ha alcun significato in sé: è necessario che questa parola acquisti un contenuto affettivo, fino a generare in colui al quale essa è rivolta il sentimento che fa sentire di essere figlio. Si nasce bambino, ma si diventa figlio, interiorizzando il sentimento che il padre nutre nei riguardi del proprio figlio. Nello sviluppo psichico, padre e figlio si definiscono reciprocamente: in particolare, il figlio acquista il senso di sé in corrispondenza al sentimento dell’altro in quanto padre. Si tratta, tuttavia, di un processo graduale, in cui, di volta in volta, la figura del padre deve entrare in sintonia affettiva con i mutevoli bisogni del bambino. Non diversamente, il Dio biblico si rivela per gradi all’uomo, creando un rapporto capace di esprimere una diversa qualità del suo sentimento, ogni volta adeguata a precisi bisogni dell’uomo, con riferimento ai differenti livelli della sua evoluzione spirituale.

 Il significato dei nomi di Dio

I nomi esprimono qualità, caratterizzando le persone e definendo le relazioni. Il primo nome di Dio che s’incontra, aprendo il libro della Bibbia, è ’Elohiym (Gen 1.1). Questo nome è un plurale, che nelle antiche lingue mediorientali è utilizzato per esprimere nozioni astratte; ne sono esempi parole ebraiche come ziqunim “vecchiaia”, o ne‘urim, “gioventù”. ’Elohiym è dunque “il Divino” in tutta la sua pienezza. In breve, ’Elohiym è un plurale con valore singolare, ma è anche il plurale maschile del femminile ’Eloha, forma lunga di ’El, che significa “forza”, o “potenza” (rad. verb. ’yl, “essere potente”). Dio dunque si manifesta come “l’insieme delle forze creatrici” - femminili e maschili - di fronte al quale l’uomo si scopre creatura.

Con un Dio Creatore, l’unico tipo di rapporto possibile è tra un essere idealizzato, ammirabile e temibile, e un essere passivo, fragile, bisognoso e dipendente. Il legame che la creatura può instaurare con una tale “Persona” richiama la natura del legame che, secondo Kohut (1977), il bambino instaura con il genitore idealizzato - in genere il padre - in cui le immagini del sé del bambino si fondono con oggetti-sé idealizzati (Tu sei perfetto, e io sono perfetto poiché parte di te).

La creatura non esercita alcuna influenza sul Creatore, può soltanto sperare nella sua benevolenza. È – questo – un Dio lontano, trascendente, con il quale l’unica relazione possibile tra uomo e Dio si esprime e si esaurisce nell’offerta. Si ha un esempio di questa modalità relazionale nel racconto di Caino e di Abele (Gen 4). La realtà di Dio Creatore resta esterna all’uomo, il quale può al più illudersi di poter esercitare un controllo sulla divinità, influenzando la sua mente e i suoi sentimenti mediante ciò che gli sacrifica. Il Dio biblico creatore non fa alcuna richiesta all’uomo; gli dice soltanto di «crescere, di moltiplicare e di riempire la terra» (Gen 1.28); si tratta di compiti contenuti nel suo stesso programma genetico.

È interessante notare che a creare l’uomo è ’Elohiym (Gen 1.26), ma a formare l’uomo dalla polvere, infondendogli un soffio di vita, è yhwh ’Elohiym. Il tetragramma è all’inizio per l’uomo un termine “affettivamente vuoto”: Gesù è colui che lo rivela (Gv 17,26). Il suo significato, infatti, è svelato gradualmente nelle pagine della Bibbia e, ogni volta, configurando una nuova relazione tra Dio e l’uomo, che da creatura diventerà figlio.

’Elohiym e yhwh sono due dimensioni relazionali ben distinte. La mistica ebraica vede nel nome ’Elohiym l’aspetto materno di Dio, che risponde mediante la creazione a tutti i bisogni fondamentali dell’uomo. yhwh è il nome che si rivela infondendo, ogni volta, una nuova consapevolezza nell’uomo.

yhwh si rivela la prima volta ad Abramo (Gen 15,7), ma si rivela in quel che fa, non in quel che “È”. Con Abramo, infatti, Dio non è più soltanto creatore, ma diviene colui che decide le sorti degli uomini e ne appaga i desideri. Come il padre avvicina il bambino non con la minaccia ma con una promessa, così Dio promette ad Abramo di esaudire il desiderio più caro al suo cuore, cioè il desiderio di un figlio.

 Guarda i cieli e conta le stelle, se le puoi contare (questa è l’opera di Elohiym). Così sarà la tua progenie (questa è la promessa di yhwh).

 Inizia a nascere nell’uomo il sentimento della fiducia in Colui che è perfetto come il creato, forte come il desiderio dell’uomo, e può ogni cosa con un atto della sua volontà.

Il bambino non apprende il sentimento della fiducia nel rapporto con la madre, poiché è predisposto fin dalla nascita al rapporto con lei (Sander, 1987; Stern. 1977). Il sentimento della fiducia non è un’acquisizione, poiché è innato (Quaglia, 2012). La preferenza del bambino per la madre è un dato di fatto (MacFarlane,1975; DeCasper, Fifer, 1980), non la conseguenza di un rapporto gratificante. Anzi, poiché il sistema emotivo del neonato è preordinato per regolare il contatto con la madre (Trevarthen, 1979, 1998), in base alla qualità della relazione si può dedurre che il bambino possa perdere la sua disponibilità a stabilire un rapporto di fiducia. In ogni modo, è con il padre che il rapporto deve necessariamente fondarsi sulla fiducia. È il padre, non la madre, a convincere il piccolo ad avere fiducia in lui. La fiducia è dunque la prima tappa lungo il cammino che porta alla scoperta del “nome del padre”. Abramo non conosce il “padre”, cioè il significato di yhwh, ma sa di potersi fidare di lui. Dio diventa ’El Šadday, la Forza onnipotente che crea la vita, e che sulla propria forza stabilisce il suo patto con l’uomo, rinnovandogli la promessa (Gen 17.1). La prima fiducia si basa, pertanto, non sull’amore ma sulla “potenza” del padre. Šadday è un termine accadico e vuol dire “roccia”, o “monte”, indicando stabilità, fermezza. Abramo può così avere fiducia in Colui che è fedele come la “roccia”, vale a dire immutabile.

Dio farà conoscere il nome di yhwh soltanto a Mosè. Gli dice, infatti:

 Mi rivelai ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe con il nome di ’El Shaddai, e non mi feci da loro conoscere con il Nome di yhwh (Es 6.3).

yhwh etimologicamente è la forma verbale della radice hwh, un’antica variante di hyh (hayáh), che traduce il nostro verbo essere. Si tratta di un verbo fortemente irregolare poiché appartenente a tre diverse categorie verbali, ognuna con comportamenti differenti. Vocalizzando, secondo la pronuncia tradizionale, con “a” (pattάħ) la prima consonante (yod), e con “e” (seggól) la terza lettera (vav) si ottiene la terza persona singolare di un verbo usato nel tempo futuro della forma causativa attiva (hif‘yl): si può in questo caso tradurre «Egli farà essere». Questo nome pone un principio di vita, cioè un Egli invisibile, causa e ratio del divenire. In breve, si tratta di un nome che contiene la promessa di una manifestazione visibile.

Di questo nome Mosè coglie l’aspetto progettuale e insiste per conoscere il vero nome, e Dio gli rivela che il suo nome coincide con una “persona”, dicendo: «[Io] sarò colui che sarò» (’Éheyeh ’Ašèr ’Éheyeh).

La Bibbia è il libro più assurdo per chi non crede, più straordinario per chi crede. In altre parole, Nome e Persona sono indistinguibili, nel senso che la Persona non ha nome, poiché è il Nome, colui che contiene in sé tutti i nomi. Dio sta dicendo a Mosè: «La parola del Nome s’incarnerà in un corpo» (Gv 1,14).

A un livello psicologico questa rivelazione corrisponde alla comprensione da parte del bambino che anch’egli sarà un giorno “padre”, come lo è il proprio padre; allora soltanto potrà conoscere il sentimento contenuto nel nome di padre. Si ha la conoscenza di un nome divenendo quel nome.

Subito dopo Dio aggiunge: «Così dirai ai figli d’Israele: [Io] sarò mi mandò a voi» (Es 3.14). Il significato del nome di Dio è nella consapevolezza dell’Uomo che dice: «Io sono». A questa consapevolezza del proprio Io sono in un “qui” che coesiste con tutte le cose, e in un “ora” che è un eterno presente, non si arriva con una meditazione trascendentale, ma con un atto di fede che relazione – non mentalmente ma cordialmente - l’essere con il “Principio”, cioè con la Ratio (Logos) di tutte le cose e, pertanto, anche dell’essere nel suo “qui” e “ora”.

Il padre è ciò che il bambino è destinato a diventare, cioè generativo come il padre; il tempo “Io sarò” si compie con “Io sono”, quando il padre e il figlio sono uno.

Nei testi sacri, «Egli farà essere» si è trasformato in «Io sarò» e, nella persona di Gesù, si è attualizzato, infine, nell’Io sono. «Prima che Abramo fosse – dice Gesù – Io sono» (Gv 8.58). Il nome di Dio prende così forma nell’uomo di Nazaret.

Il testo greco è Egò eimí, che in ebraico diventa ’Aniy hu’, vale a dire: Io sono Egli, cioè yhwh, proprio colui che parlò con Abramo e con Mosè. Comprendiamo perché il testo riferisce che, a questa dichiarazione, i Giudei raccolsero pietre per lapidarlo. Il nome ha dunque preso forma in Gesù, ora bisogna dargli un contenuto qualitativo. Gesù, dunque, ha detto di essere lo stesso Dio che parlò con Abramo e con Mosè; ora deve dimostrarlo. La missione di Gesù è far conoscere il Padre. Gesù parla del Padre ai Giudei, che gli chiedono: «Dov’è tuo padre?». Gesù risponde: «Voi non conoscete né me né il Padre mio: se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio» (Gv 8.19). In un’altra circostanza afferma che lui e il Padre sono «uno» (Gv 10.30). Gesù cerca di comunicare qualcosa, come se volesse dire che lui è «il Padre eterno» di cui ha parlato Isaia (Is 9.5). L’insistenza con cui Gesù parla del Padre è sorprendente. Ne parla anche durante l’ultima cena, dicendo: «Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio, e fin d’ora lo conoscete e lo avete veduto» (Gv 14.7).

Il messaggio sembra essere di capitale importanza, come se dalla sua comprensione dipendesse il destino dell’uomo. I discepoli sembrano esserne consapevoli, ma non possono comprendere quelle parole come non le comprendiamo noi. La nostra mente non concepisce che Gesù possa essere il Padre. Facciamo fatica ad accogliere queste parole alla lettera: «… fin d’ora lo conoscete e l’avete visto». Filippo dirà: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14.8). Il nostro rapporto con il Padre, non può avvenire per intermedia persona; affinché si stabilisca un rapporto è necessario che ci sia un “con-senso” affettivo e mentale. Non si tratta di “leggere” la mente delle persone (Fonagy, Target, 1997), ma di sentire, come una eco, i sentimenti dell’altro in noi come nostri. La trasformazione in “figlio del padre” presuppone, pertanto, che il figlio sia esposto al sentimento paterno e senta il significato affettivo espresso da quel sentimento.

La risposta di Gesù sconcerta, esprime meraviglia e rimprovero: «Da tanto tempo sono con voi, e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? […] Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14.9,11). Io non so se si possa dire che due persone coesistano una nell’altra in un unico corpo, ma è quello che Gesù ha detto. Siamo di fronte «all’unico Dio e Padre di tutti, che è su tutti, per mezzo di tutti e in tutti» (Ef 4,6).

Il padre entra nella vita del bambino in seguito a una vera e propria rivelazione. A un certo punto, come è avvenuto con la madre, così deve avvenire con il padre. Anche con il padre, infatti, il bambino deve fare l’esperienza della condivisione degli stati soggettivi (Beebe et al., 1985). Il padre cessa di essere l’altro, quando il bambino avverte che il padre sente quel che egli sente. Nel rapporto con Dio, Questi diventa Padre quando il credente, mediante l’identificazione alla persona di Gesù, scopre il Padre sulla croce.

Affinché il bambino conosca il padre, i sentimenti del padre devono essere i sentimenti del bambino; allo stesso modo Dio diventa Padre quando i suoi sentimenti diventano umani. In questo senso, forse sono da interpretare le parole di Gesù, quando dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo» (Mt 11.27).

 In Gesù, il Padre diventa una persona reale, concreta, con cui è possibile entrare in contatto in un nuovo campo di relazione. Il Padre, che vive nelle pagine dei Vangeli, ha tutte le qualità di un padre naturale: è un Partner protettivo, forte, onnipotente, intersoggettivo; soprattutto è un Partner che risponde al bisogno di crescere del bambino, secondo un modello idealizzato che non deluderà mai.

Come il bambino ha bisogno che le figure di accudimento rispecchino il suo stato affettivo (Allen, Fonagy, 2006), così, nell’umanità di Gesù, possiamo riflettere e sperimentare la nostra stessa umanità nei suoi vari aspetti. La soggettività di Gesù e le nostre singole soggettività possono impersonare un preciso ruolo familiare, nella combinazione di padre e di figlio. In questo contesto emotivo, o intersoggettivo, in cui l’Altro è in “simpatia affettiva” (affective sympathy) con noi (Eb 4.15), può avere inizio un’esperienza di rinascita (Gv 3.3), con una conseguente riorganizzazione della nostra personalità.

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare: «Che cosa sarebbe diverso se Dio fosse madre?». Una madre può escludere il padre e la sua funzione; al contrario, un padre presuppone una madre, la comprende e porta a termine quel che lei ha iniziato, affiancandola, non sostituendosi. Nella dimensione spirituale, non è diverso, Dio provvede all’uomo e ai suoi bisogni come una madre, poi, lo spinge fuori dalla valle di Gescen in Egitto, e lo incontra in veste di Padre, sul monte Horeb. Da questo momento, nel credente si sciolgono i legami affettivi e gli intrecci familiari infantili in vista di nuovi modi di essere in relazione con gli abitanti del cielo, con sé stesso, e con gli abitanti della terra, dove tutti sono soltanto fratelli.

«E non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno soltanto è il Padre vostro, ed è nei cieli» (Mt 23.9).

 Conclusione

I vari autori che si sono occupati dello sviluppo psichico del bambino hanno cercato di individuare il bisogno fondamentale che dà “sostanza” alla personalità e significato all’esperienza, vale a dire quale sia il fine che governa l’attività umana, o quale sia la motivazione centrale sottesa ai desideri, alle scelte, alle relazioni con gli altri. Noi siamo abituati a pensare che il bambino desideri essere amato e che, per uno sviluppo soddisfacente, debba incontrare una madre che senta il bisogno di amarlo. Tutti gli autori, infatti, sono d’accordo nell’affermare che, nascendo, il bambino necessita di essere amato, ma “essere amato” è la condizione necessaria affinché il “vero” bisogno del bambino emerga, vale a dire il bisogno di amare.

La mente del bambino è intrinsecamente «diadica, sociale, interazionale e interpersonale» (Aron, 1996, p. X), ed è, pertanto, predisposta a un incontro affettivo con l’altro. Il bambino non s’innamora della madre perché nutrito, rassicurato e protetto, ma perché la madre, con il suo amore, è in grado di suscitare nel neonato l’innata emozione della gioia. A tutte le età, l’essere umano per vivere ha bisogno di innamorarsi. In breve, se dal nostro punto di vista il bambino riceve amore, dal punto di vista del bambino non c’è differenza tra dare e ricevere, tra l’amore della mamma e il proprio amore per la mamma. Ora, uno sviluppo sano comporta una differenziazione tra l’amore gratuitamente dato, e l’amore dato che si basa su un rapporto regolato da permessi e da divieti. Spetta dunque al padre aiutare il figlio sia a rivolgere il suo bisogno di amare all’esterno della diade madre-bambino, sia a sentire il bisogno di meritare il suo amore, sia infine a riconoscere la natura bidirezionale dell’amore. In particolare, il padre insegna la conquista dell’amore, motivando nel figlio il desiderio dell’obbedienza. L’amore è naturalmente obbediente.

L’incontro con il padre diventa importante per la diversa qualità del suo amore, capace di soddisfare un nuovo modo di “essere con”, che consente di gioire per le nuove conquiste del bambino. A una madre ansiosa per le nuove prodezze del bambino deve succedere un padre fiero per le emergenti abilità del figlio, disciplinandole (Paquette, 2004), con la “legge” della sua parola (Lacan, 1956-57). In questo modo il padre può assolvere il suo vero e più importante compito: separare il bambino dalla madre, mediante quella funzione definita dal Nome-del-Padre (Lacan, ibidem).

 “Il padre è presente unicamente per la propria legge che è Parola ed è solo nella misura in cui la sua parola è riconosciuta dalla madre che essa prende valore di legge. Se il ruolo del padre è messo in questione il bambino rimane soggetto alla madre” (Lacan, ibidem).

 La scoperta del padre diventa la sola opportunità per fare l’esperienza di una nuova configurazione di Sé, con riferimento a quel che il genitore sente nei confronti di chi si pone come “figlio” (Mitchell, 2000).

Il “credente”, mediante l’identificazione alla figura del Cristo, ha l’opportunità di instaurare un’ideale relazione con il Padre, un Padre che trova nel Figlio la sua sola gioia (v. Mt 3.17), e ha la possibilità di sottrarsi al dominio della propria infantile dimensione affettiva. Il nome di Padre che Dio si attribuisce

(Mt 23.9) non risponde a categorie ideologiche, ma a un’esigenza che ha nello sviluppo psicologico dell’individuo la sua ragione vera. Inoltre, la paternità del Dio biblico presenta i requisiti per suscitare nell’uomo esperienze relative a stati affettivi profondi per il suo carattere di “ideale” e per il rapporto che instaura con l’uomo, cioè un rapporto fondato sulla scoperta di essere parte del Padre: «Sono perfetto e sono parte di te» (Kohut, 1977).

Nell’uomo Gesù, Dio rende concreta la sua paternità (Gv 10.30), definisce la qualità della relazione (Gv 14.1), insegna a fare esperienza del sentimento dell’amore nelle azioni (Gv 15.14).

Il cammino di ogni guarigione inizia con la fede, che non è nell’altro, né in noi stessi; la vera fede è fede nella Vita che ha generato noi e l’altro.

 

Riferimenti bibliografici

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© Torino, 19 maggio 2017

Giovanni Ferretti 1

Nell'areopago post-moderno, che vede la diffusione di forme di ontologia debole e di etiche del finito, la teologia cristiana non può certamente adattarsi a pensare Dio come finito e impotente ... ma certamente è provocata a pensare in forme nuove la trascendenza dell'essere infinito, assoluto e onnipotente di Dio non più in termini di potenza che s'impone e può fare tutto ciò che vuole, bensì come trascendenza dell'Amore che si offre gratuitamente alla libera accettazione dell'uomo perché egli viva in pienezza la sua capacità di amare.
(Tratto da “Il difficile compito” di Giovanni Ferretti)